Quando, nell’ormai lontano 2007, i Giochi Olimpici invernali del 2014 (7-23 febbraio) vennero assegnati alla città russa di Sochi, gli esperti di Russia (e Caucaso) rimasero quanto mai perplessi. Sochi, infatti, è nota ai più soprattutto come luogo prediletto di villeggiatura in patria di Putin e tanti altri russi. Ma questa località si trova in effetti alle pendici del Caucaso settentrionale, vale a dire nella regione più instabile della Federazione russa.
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Phnom Penh: un’ombra scura si staglia all’orizzonte delle manifestazioni contro il governo di Hun Sen, una nube impregnata di atavici rancori e di odio. L’onda umana che dallo scorso settembre costantemente scende in piazza gridando a migliori salari, minore corruzione e invocando elezioni regolari per ora non è riuscita a spazzare via l’apparato di Hun Sen, ma ha avuto successo nello sfogare tutta la propria frustrazione in poche ore di follia dello scorso 3 gennaio.
L'appoggio delle chiese mondiali
L’analisi dei cambiamenti avvenuti nella struttura di controllo e repressione del potere di Damasco e nella gestione delle risorse dedicate alla contro-insurrezione mostra un coinvolgimento sempre più diretto di uomini e mezzi iraniani e russi.
Dopo il Mali, la Repubblica Centrafricana. La seconda guerra di François Hollande, iniziata il 5 dicembre scorso, continua nell’ombra. La Francia dimostra una volta di più di perseguire una politica interventista nel continente nero, dispiegando migliaia di soldati, mezzi pesanti e aviazione nelle ex-colonie colpite da crisi securitarie. Queste “operazioni umanitarie” sono, in realtà, le ultime carte che l’Eliseo può giocarsi nell’estrema difesa dei privilegi economici della potenza coloniale che era.
Da diversi mesi, la Thailandia è scivolata in una crisi che ha ormai superato i limiti del normale dibattito democratico. Domenica due esplosioni hanno ferito 28 manifestanti mentre, due giorni prima, il bilancio di una bomba e una sparatoria contava due morti e 35 feriti. Attori di questo scontro sono, da una parte, il governo di Yingluck Shinawatra e del Pheu Thai, partito populista al governo che ha vinto di misura le elezioni del 2011 contro il Partito Democratico e che viene oggi accusato di usare le forze di polizia in senso repressivo.
Ankara sta giocando col fuoco. Il più grave scandalo per corruzione degli ultimi anni e il coincidente annuncio del tapering (meno 10 miliardi di dollari di acquisti di bond al mese) annunciati a dicembre dalla Federal Reserve (Fed), sotto la guida di Janet Yallen, stanno minando alle fondamenta il miracolo economico sul Bosforo.
Il nome di Fethullah Gülen si fa spesso, nelle cronache politiche sulla Turchia, come quello di un possibile kingmaker per i futuri assetti del paese, a partire dalle prossime elezioni presidenziali: in particolare dopo che il suo movimento, denominato Hizmet (servizio), è entrato in rotta di collisione con il primo ministro Erdoğan, dopo averlo sostenuto per quasi un decennio.
Tre anni fa, appena scoppiata la scintilla delle cosiddette “primavere arabe”, mentre le piazze di Tunisi e del Cairo si riempivano e costringevano i vecchi presidenti autoritari a fuggire, era opinione comune che la Turchia sarebbe stato il punto di riferimento per quei paesi che, usciti da anni di autoritarismo, si apprestavano a mettere in moto il loro processo di transizione.
Tornato alle urne per la sesta volta in tre anni, l’Egitto avrà tra pochi giorni una nuova Costituzione che sostituisce quella a forte impronta islamista approvata poco più di un anno fa dal deposto nonché legittimamente eletto presidente Mohammed Morsi. Ma più che sui 247 articoli messi a punto a dicembre da una Commissione di 50 membri, il referendum chiedeva l’approvazione del paese sull’operato del ministro della Difesa al-Sisi, architetto del golpe popolare dell’estate scorsa e della successiva messa al bando dei Fratelli musulmani.