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In un’Europa in pieno stato d’emergenza a causa della pandemia da coronavirus, i poteri governativi si sono ampliati ovunque. La situazione richiede decisioni rapide, immediate. Del resto è in corso una sfida contro il tempo per salvare vite umane e contenere il più possibile il collasso economico, che è inevitabile.
Sembrava poter diventare la nuova architettura di riferimento per la gestione del mercato petrolifero. E invece il cosiddetto OPEC+ – l’alleanza del cartello OPEC guidato dall’Arabia Saudita con la Russia, maggiore esportatore mondiale non-OPEC – già somiglia a una storia d’amore già finita.
La politica afghana continua a dividersi sull’esito delle presidenziali del 28 settembre 2019, mentre gli Stati Uniti e i Talebani iniziano una tregua di 7 giorni che potrebbe condurre alla firma, il 29 febbraio, di uno storico accordo di pace.
Cinque anni dopo l’inizio del conflitto, lo Yemen è ancora in guerra. La crescita della violenza (gennaio 2020), dopo una significativa riduzione delle ostilità (autunno 2019), mette a rischio i flebili spiragli di pace fin qui apertisi. L’accordo di Riyadh (novembre 2019), che ha sancito l’ingresso dei secessionisti meridionali nelle istituzioni riconosciute basate ad Aden, non trova applicazione, come scarsa attuazione aveva prima trovato l’accordo di Stoccolma (dicembre 2018) per il cessate il fuoco nel governatorato di Hodeida. In Yemen manca una cornice negoziale nazionale.
Kabul e Jalalabad - “Sì, sono disposta a parlare con i Talebani, anche se hanno ucciso mio cugino. Ma prima pretendo un cessate il fuoco, un segno della loro reale disponibilità al dialogo e all’incontro”. Negina Yari è una giovane attivista, esponente dell’Afghanistan Peace House, un’organizzazione-ombrello che raccoglie più di 1.000 aderenti, attivi nelle 34 province afghane. Tra di loro ci sono i messaggeri di pace, “studenti universitari, ma non solo, che diffondono un messaggio di pace e di riconciliazione sociale”.
La Conferenza di Berlino è riuscita a riunire per la prima volta tutti gli attori, formali e informali, della crisi libica. Ma cosa rimane dell’incontro e, se la tregua sul terreno reggerà, quali saranno i prossimi passi da fare?
Una poltrona per due. E in mezzo il caos politico, istituzionale e sociale di un paese ormai alla deriva. La lotta scatenata a Caracas per il controllo della presidenza dell’Asemblea Nacional, il parlamento monocamerale che esercita, almeno sulla carta, il potere legislativo è solo l’ultimo scontro della battaglia tra il governo del presidente Nicolas Maduro e l’opposizione guidata da Juan Guaidò.
Delhi, Meerut, Chandigarh, Patiala, Kanpur, Aligarh, Ahmedabad (nel Gujarat, lo stato dove Narendra Modi è nato e ha iniziato la sua carriera politica), Lucknow, Varanasi, Patna, Guwahati, Tezpur, Itanagar, Dibrugarh, Imphal, Silchar, Aizawl, Manu, Shillong, Santinketan, Kolkata, Bhopal, Mumbai, Pune, Hyderabad, Kasargod, Bangaluru, Chennai, Puducherry, Mysuru, Kochi, Kottayam.
Mentre l’Europa ha gli occhi puntati sul voto nel Regno Unito, anche in Algeria gli elettori sono chiamati ai seggi. Nel più esteso degli stati africani, e il più grande dei paesi arabi, i movimenti di piazza contestano la tornata elettorale organizzata da le pouvoir, ovvero l’establishment che ormai da mesi cercano di mandare a casa. L’appuntamento con le urne segnerà una svolta nella relazione tra i protagonisti della nuova scena politica, l’esercito e il popolo?