Negli ultimi anni l’opinione pubblica mondiale è stata ripetutamente scossa dalla violenza e dalle immagini che hanno accompagnato mediaticamente la rapidissima ascesa ed espansione dell’autoproclamato Stato Islamico[1]. L’attenzione dell’intelligence e del mondo accademico è stata attirata soprattutto dal fenomeno dei foreign terrorist fighters (Ftf) coinvolti nel conflitto siro-iracheno, per le modalità di attivazione e sviluppo, nonché per la mobilitazione raggiunta in brevissimo tempo[2].
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Dal 5 al 12 novembre 2017 il Presidente statunitense Donald Trump visiterà cinque paesi dell’Asia. Anche se recentemente nel lessico diplomatico statunitense si fa riferimento alla regione come “Indo-Pacifico” anziché “Asia-Pacifico” per sottolineare il maggiore peso che l’attuale amministrazione dà ai rapporti con l’India, i cinque paesi (Giappone, Corea del Sud, Repubblica Popolare Cinese, Vietnam e Filippine) sono tutti in Asia orientale.
La visita di Stato di Donald Trump in Asia avviene in un momento delicato per la vita politica della regione. Negli scorsi mesi, i test nucleari nordcoreani hanno portato a un aumento della tensione che l’irrigidimento della posizione di Washington non ha fatto nulla per contenere. Durante gli anni dell’amministrazione Obama, gli alleati regionali hanno espresso in più occasioni il loro disagio per le scelte degli Stati Uniti considerati (a torto o a ragione) troppo passivi rispetto alle ambizioni di Pyongyang.
Come avevano indicato i pronostici della vigilia, per determinare chi sarà il nuovo presidente della Liberia occorrerà un ballottaggio: il 7 novembre prossimo i 2,2 milioni di iscritti alle liste elettorali dovranno quindi scegliere tra l’ex calciatore George Weah – celebre in Italia per aver militato nel Milan degli anni Novanta –, che al primo turno del 10 ottobre ha raccolto il 38,4 per cento dei voti, e l’attuale vicepresidente Joseph Boakai, arrivato secondo con il 28,8 per cento.
Per la prima volta in Africa subsahariana, un’elezione presidenziale viene ripetuta per volere di un’autorità giudiziaria garante della costituzione nazionale. Accade in queste ore in Kenya, dove lo scrutinio di agosto era stato annullato all’inizio del mese successivo dalla Corte Suprema sulla base di errori e cattiva amministrazione nelle procedure di conteggio, registrazione e comunicazione dei voti.
Il 17 ottobre le Forze democratiche siriane (Sdf) hanno annunciato la ripresa di Raqqa, città della Siria sulle sponde dell’Eufrate, vera e propria “capitale” dello Stato islamico (IS). Pochi mesi prima, il 9 luglio, dopo una battaglia estenuante protrattasi per oltre nove mesi, le forze irachene avevano riconquistato Mosul, simbolo e roccaforte di IS in Iraq. Il califfato arretra, ma la tensione nelle aree liberate rischia di rimanere alta.
È la “guerra nella guerra”: lo scorso 16 ottobre, gli Stati Uniti hanno colpito, per la prima volta, due campi di addestramento del sedicente Stato islamico (IS) in Yemen, uccidendo, secondo il Pentagono, decine di jihadisti, nella regione centrale di al-Bayda, già teatro di feroci scontri tra le fazioni yemenite in conflitto dal 2015.
La dimensione cibernetica è un campo da gioco polivalente e aperto: facile entrare, ancor più facile uscire in fretta e mantenendo l’anonimato. Se è vero che nel web ogni giorno piovono pietre, è altrettanto vero che non c’è posto più adatto al mondo per scagliare il sasso e nascondere la mano.
Il 23 dicembre 2015 l’Ucraina ha subito un grave attacco cibernetico alle proprie infrastrutture critiche nazionali: circa 225mila case sono rimaste senza energia elettrica, in pieno inverno. Benché gli ucraini abbiano immediatamente ascritto la colpa ai russi, non possiamo essere certi di chi ne sia stato l’artefice.