Alla vigilia dell’ultimo round di colloqui tra l’amministrazione iraniana e il gruppo 5+1 a Vienna sul caso nucleare, l’intero mondo internazionale è in attesa di conoscere quale sarà il risultato definitivo. Si raggiungerà, dopo oltre 11 anni di trattative, un accordo definitivo? Vi sarà un nuovo rinnovo del termine delle trattative? Oppure ci sarà un fallimento del confronto diplomatico?
La ripresa del round negoziale ginevrino sul dossier nucleare iraniano, il 20 novembre, ha vissuto la tragica vigilia di un duplice attentato contro l’ambasciata della Repubblica Islamica a Beirut, in Libano, costato la vita a 23 persone oltre al ferimento di altre 146.
La notizia del nuovo rinvio della conferenza Ginevra 2 a (almeno) l’inizio di dicembre non ha sorpreso nessuno. Non ha sorpreso nemmeno che le due parti, il regime e l’opposizione, si stiano rimpallando la responsabilità: il primo vuole la presenza dell’Iran al tavolo negoziale e la garanzia che le dimissioni di Assad non siano una condizione per l’inizio delle trattative, la seconda pretende che la fine del dittatore sia messa per iscritto come requisito necessario per l’inizio di qualunque dialogo.
Una recente escalation di violenza ha investito il Mali riportando le lancette del processo di pacificazione dell’intera regione indietro di qualche luna. Dopo mesi in cui gli unici botti sono stati quelli dei festeggiamenti di libere e partecipate elezioni, nel paese è tornato a risuonare il suono freddo e metallico delle armi. In poco più di una settimana interruzione dei negoziati di pace, scontri e attentati suicidi al nord; sequestri, arresti e un’insurrezione di militari golpisti, al sud.
Il 4 ottobre 1992, la firma dell’Accordo di pace di Roma, tra il governo del Frelimo e la Renamo, che mise fine a 17 anni di guerra civile in Mozambico, segnò il punto più alto della politica africana dell’Italia. Mai come allora (e mai più dopo di allora) l’Italia era un punto di riferimento per i regimi post-coloniali africani.