Esistono molti aggettivi che possono qualificare l’accordo raggiunto a Vienna lo scorso 14 luglio da Iran e P5+1. “Storico” è uno di questi, se si pensa a quanto sia ancora accesa, perlomeno nella retorica di certi ambienti politici, l’ostilità tra Iran e Stati Uniti, innescata trentasette anni fa da una rivoluzione che ha fatto dell’ostilità al “grande Satana” una delle proprie pietre fondanti. Si tratta poi di un accordo che ha rappresentato anche e soprattutto una vittoria della diplomazia, come ha ricordato il Segretario di stato Usa John Kerry. Decenni di ostilità, minacce e tensioni che non sfociano in guerra aperta ma vengono affrontati attorno a un tavolo, anche al prezzo di lunghe ed estenuanti trattative. Un’intesa, ancora, che è nata come una scommessa dell’amministrazione Obama e che è ora divenuta promessa di un nuovo inizio: quel “nuovo inizio” nelle relazioni con l’Iran invocato dal presidente statunitense nel lontano 2009 e che a Teheran è stato accolto con cauto pragmatismo. Ma, più di tutto, si tratta di un accordo da proteggere: dalle opposizioni interne ai paesi firmatari, certo, ma anche da quegli attori regionali che non hanno mai fatto segreto della propria ostilità nei confronti di un’intesa che per forza di cose prelude a una reintegrazione di Teheran nel consesso delle nazioni e a una ridefinizione degli equilibri nell’area mediorientale.