A oltre un anno di distanza dalla caduta di Mosul, qual è lo stato del sistema iracheno e quali sono le possibilità che esso riesca a uscire da una crisi che appare per molti versi irreversibile? Come sempre, quando si parla di Iraq, le risposte a questi quesiti sono molteplici e raramente univoche.
Il 10 giugno scorso la presa del consolato turco di Mosul da parte delle forze dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, così come il rapimento del console, del personale della rappresentanza e di diversi altri cittadini turchi, hanno costituito un importante punto di svolta per l’agenda politica “irachena” della Turchia.
La caduta di Mosul e l’instaurazione dello Stato Islamico guidato da Abu Bakr al-Baghdadi hanno riportato alla luce il dibattito sulla possibile tripartizione dell’Iraq (“soft” o “hard”, a seconda che si preservi o meno l’impostazione federale del sistema iracheno).
«È cosa risaputa che nel momento in cui scoppia una crisi in qualsiasi parte del mondo, l'interrogativo per alcuni è sempre “Cosa significa questo per Israele?”» faceva notare nei giorni scorsi Ronald Tiersky, docente di scienza politica, sulle colonne dell'Huffington Post(1). In effetti, per quanto in questi giorni Israele sia più occupato sul fronte interno, esistono dei potenziali effetti negativi dell'avanzata dello Stato Islamico (IS).
La recrudescenza della violenza settaria che ha investito nelle ultime settimane l’Iraq ha visto Riyadh lanciare una serie di dure accuse contro l’esecutivo al-Maliki, da sempre tutt’altro che ben visto dalla casa reale saudita.
Gli Stati Uniti hanno perso l’Iraq? Il basso profilo scelto dall’amministrazione Obama di fronte all’avanzata delle forze dell’Isis in direzione di Baghdad lascia supporre, se non proprio disinteresse per il destino del governo di Nuri al-Maliki, quanto meno la difficoltà di individuare una strategia che sia, al contempo, efficace, politicamente sostenibile, e che riesca a togliere Washington dall’imbarazzo di scelte che risultano comunque sg
La situazione in Iraq è complessa e fluida, poiché è in atto un tentativo di rovesciamento degli equilibri politici, locali e regionali, che il surge americano aveva solo smorzato e che è ripreso a pieno regime a partire dal 2012.
Tra le varie elezioni che si sono svolte in Medio Oriente e in Nord Africa negli ultimi mesi, quelle irachene del 30 aprile scorso sono forse state quelle più sottovalutate: sia per la scarsa eco mediatica, sia per ciò che concerne le loro possibili conseguenze.
Ancora una volta l’Iraq è tornato a occupare le prime pagine dei giornali. Non per l’esito controverso e pieno di incognite delle elezioni legislative del 30 aprile e per le conseguenze che la fragile affermazione del primo ministro al-Maliki potrebbe avere sul paese, ma per l’ennesima ondata di violenza che minaccia ancora una volta l’integrità e la coerenza stessa del “nuovo Iraq”. Eppure i segni della crisi erano evidenti e tutt’altro che imprevedibili per chi avesse voluto coglierli.
The outcome of the forthcoming general elections is wide open, and Iraq’s political scene could change considerably in a short time. But, whatever its shape and color, the government that takes power will have to address serious medium-term economic challenges. In one way or another, these challenges all relate to oil – and it is difficult to see how it could be otherwise, as Iraq is already one of the largest oil producers in the world and the third largest exporter after Saudi Arabia and Russia.