Nel corso della sua visita a Riyadh, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha invitato l’Arabia Saudita alla “pace fredda” con l’Iran, mettendo in guardia sugli effetti del settarismo. Fredda, in realtà, è stata l’accoglienza che il regno degli al-Saud ha riservato a colui che, ancora per alcuni mesi, risiederà alla Casa Bianca. Con il gergo felpato ma allusivo della diplomazia, è stato lo stesso staff del presidente Obama a definire “franca” la discussione avuta con re Salman.
Il conflitto yemenita, relegato nel “girone dei dimenticati” della politica internazionale, non può più essere trascurato e sottovalutato dai media, ma soprattutto dai decisori politici. Basterebbe qualche numero. Secondo l’Unhcr, circa l’80% della popolazione dello Yemen (25 milioni), già il paese più povero dell’area Mena, necessita di assistenza umanitaria: questo conflitto è finora costato la vita a quasi 6000 mila persone, in particolare civili, portando a oltre 2,3 milioni il numero degli sfollati interni.
Quando alla fine del 2011 ‘Ali ‘Abd Allah Saleh fu costretto a lasciare il potere che deteneva da 33 anni e ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, suo vice da 16 anni, ne prese il posto, sanzionato dalle elezioni del 2012, parve ai più che anche per lo Yemen, liberatosi come Tunisia, Egitto e Libia del proprio autocrate, s'inaugurasse una feconda primavera.
La Repubblica Unita dello Yemen, che comprende l’isola di Socotra nell’Oceano Indiano e gli arcipelaghi di Perim e Kamaran sul Mar Rosso, è uno dei paesi più poveri del mondo. La sua posizione strategica nell’angolo meridionale della penisola arabica (2000 chilometri di costa e solo 25 chilometri di distanza via mare da Gibuti), ai confini con il Sultanato dell’Oman e con l’Arabia Saudita, ne costituisce la sua importanza da secoli.
Following to the death of King Abdullah bin Abdulaziz al-Sa‘ud, announced on the early morning of January 23rd on Saudi state television, and the crowing of his half-brother Salman bin Abdulaziz al-Sa‘ud, the world has moved to understand nuances in the transition from the old to the new King.
L’accordo Nazionale di Pace siglato lo scorso 21 settembre sta arginando, finora, la violenza a Sana’a, dopo gli oltre 200 morti e 400 feriti (secondo i dati del Ministero della Sanità) in soli quattro giorni di scontri fra huthi e milizie filo-governative. Il documento prevede la formazione di un governo tecnico, appoggiato anche dai ribelli sciiti zaiditi, incaricato di applicare le raccomandazioni stilate dalla Conferenza di Dialogo Nazionale.
Due settimane fa l’appello congiunto lanciato dalla dirigenza di al-Qaida nella Penisola Arabica (AQAP) e di al-Qaida nel Maghreb Islamico (AQIM) a favore di una ritrovata unità del fronte jihadista siriano (duramente segnato negli ultimi mesi da scontri intestini di estrema violenza) aveva scatenato una ridda di interpretazioni profondamente differenti.
Da alcune settimane, gli episodi di violenza lungo il perimetro geografico del regno saudita si stanno moltiplicando. Il 6 luglio, al-Qaida nella Penisola arabica (Aqap) ha rivendicato l’assalto armato e suicida al checkpoint militare saudita di al-Wadia, al confine con l’Hadramaut yemenita, costato la vita a una decina di persone, fra terroristi e forze di sicurezza.
I tre attacchi coordinati che lo scorso venerdì sono costati la vita a cinquantasei fra poliziotti e soldati yemeniti dimostrano – qualora ce ne fosse ancora bisogno – la capacità operativa di al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP). E gettano ulteriori ombre sull’efficacia della pluridecennale politica di securitization degli Stati Uniti nel paese. Perché proprio ad agosto, i droni di Washington hanno colpito lo Yemen con frequenza e intensità inaudite, uccidendo, tra gli altri, un leader locale di AQAP, Qaid Ahmad Nasser al-Dhahab.
Lo scorso 22 febbraio, il presidente statunitense Barack Obama ha annunciato, con una lettera al Congresso, il dispiegamento di circa 40 funzionari militari in Niger, portando dunque a 100 il numero totale delle truppe Usa presenti nel paese africano.