La tragedia che potrebbe consumarsi a Idlib nei prossimi giorni è il prodotto delle più profonde ambiguità che si sono trascinate in questa interminabile fase finale della guerra civile siriana. Dall’inizio del 2017 a oggi la piattaforma di Astana, fondata dai tre principali protagonisti esterni del conflitto Russia, Turchia e Iran, ha infatti creato una cornice per una gestione condivisa delle negoziazioni e delle operazioni sul campo basata su tre punti.
Si apre giovedì 23 febbraio a Ginevra il quarto round negoziale dei colloqui di pace sulla Siria convocati dall’inviato speciale dell’Onu Staffan de Mistura. L'incontro avrà luogo a una settimana di distanza dal vertice tenutosi il 15-16 febbraio ad Astana, un'iniziativa parallela organizzata da Russia, Turchia e Iran. In vista di questo appuntamento, ripercorriamo le posizioni degli attori coinvolti e i possibili scenari.
“Sostegno totale” a una “decisione coraggiosa”. Così, in un comunicato stampa ufficiale, l’Arabia Saudita ha commentato l’attacco statunitense di questa notte contro una base militare del regime siriano, nell’area di Homs. Di certo, l’attacco chimico perpetrato dall’aviazione di Bashar al-Assad a Khan Cheikhoun (provincia di Idlib), è l’ennesimo colpo di scena in un conflitto, quello siriano, che ha già vissuto innumerevoli mutazioni.
In questi ultimi mesi sulle colonne di giornali online e cartacei ci si è spesso chiesti “cosa sarà la Siria dopo”. Dopo Isis, dopo il conflitto, dopo Bashar al-Assad (quest’ultima domanda a dire il vero sempre meno). Lentamente, nel dibattito si è cominciata anche a insinuare una variante piuttosto radicale della stessa domanda, e molto più inquietante: “Ci sarà una Siria dopo?”.
La città di Aleppo è entrata a pieno titolo nel conflitto siriano dal 19 luglio 2012. Aleppo era, fino a quel momento, sotto ferreo controllo del regime. Ciò non significa che non vi fossero opposizioni, società civile e mediattivisti già in campo per chiedere diritti e democrazia. Non scontro armato appunto, ma inizialmente manifestazioni pacifiche.
Il primo maggio 2003 George W. Bush dichiarò il “mission accomplished” della guerra in Iraq. Ora sappiamo che di “accomplished” c’era ben poco e che quel pomposo messaggio dichiarato al mondo a bordo della USS Abraham Lincoln in realtà significava semplicemente la trasformazione del conflitto iracheno in un altro tipo di guerra. Non più battaglie campali e operazioni su vasta scala, ma una lunga e logorante guerriglia fatta di attentati, bombardamenti mirati e brevi battaglie urbane che per molti anni a seguire logorerà lentamente le forze americane.
Mentre la guerra in Siria è ormai entrata nel suo quinto anno – con più di 250.000 vittime e 7 milioni di sfollati, di cui più di 4 milioni rifugiati all’estero – sembra aprirsi una nuova fase del conflitto con un’ulteriore escalation del coinvolgimento degli attori esterni: Russia, Francia, Turchia hanno optato per nuove azioni militari in Siria e in Iraq, mentre l’Italia sembra valutare l’ipotesi di un intervento in Iraq. Un’apparente convergenza di alcune delle potenze coinvolte sembra rilanciare l’azione contro la presenza dello Stato Islamico ma, allo stesso tempo, pare anche riproporre apertamente il regime di Assad come interlocutore politico. Nonostante l’accordo tra Stati Uniti ed Iran, le cui ricadute sul piano regionale non sono ancora chiare, sullo sfondo continua ad agire quell’insieme di fattori che hanno influenzato il conflitto, e che hanno favorito il protrarsi della guerra. Sono gli stessi fattori che per ora allontanano la possibilità di un compromesso più grande sul conflitto siriano e su una più ampia sistemazione pacifica del Medio Oriente.
Per i più ottimisti, quelli che pensavano che l’Iran deal avrebbe portato la soluzione per ogni male del Medio Oriente, la doccia fredda è arrivata subito. È arrivata in Siria, dove col rafforzamento dell’Iran, la disperazione del regime e le accentuate insicurezze saudite, le cose non si sono affatto risolte. Anzi, si sono complicate. La verità, semmai, è che l’Iran deal ha incrementato gli incentivi delle potenze regionali per continuare il conflitto.
Il conflitto siriano è ormai entrato nel suo quinto anno e, dopo più di 250.000 vittime e 7 milioni di sfollati, di cui più di 4 milioni rifugiati all’estero (ed è bene ricordare che solo una piccolissima parte di questi sceglie la via per l’Europa, mentre la grandissima maggioranza è ripartita tra Turchia, Libano e Giordania), la situazione sul campo negli scorsi mesi è sembrata caratterizzarsi da uno stallo da cui uscire appare difficile.
Dopo più di quattro anni di sanguinosi combattimenti e di incapacità della comunità internazionale di trovare la quadra sul conflitto siriano, in questa estate rovente, sembra si sia giunti ad una svolta decisiva. Il 2 e 3 agosto si è svolto infatti a Doha un meeting Usa-Gcc (Consiglio di cooperazione del Golfo), a cui hanno partecipato il segretario di Stato americano John Kerry, i ministri degli Esteri dei paesi arabi del Golfo membri del Gcc e il segretario generale del Gcc Abdul Latif al-Zayani.
Le vittorie ottenute da Jaysh al-Fatah [1] nella regione di Idlib, la presa di Palmira da parte dei jihadisti del sedicente Stato islamico (IS), la crescente dipendenza di Damasco dal sostegno dell’Iran e di Hezbollah e le gravi divisioni all’interno del regime guidato da Bashar al-Assad hanno evidenziato come il conflitto siriano sia ben lungi dall’essersi esaurito in una mera guerra di posizione. In questo contesto, la crisi del regime e l’avanzata dei ribelli potrebbe avere conseguenze durature per il futuro del paese.
Quella di Rustum Ghazaleh è una storia da romanzo di spie. E sarebbe la trama ideale per un bestseller, se sullo sfondo non ci fosse un conflitto civile che ha fatto oltre 200 mila morti e distrutto le fondamenta di un intero paese. Ma è una storia che è utile raccontare per gettare un po’ di luce all’interno dell’impenetrabile scatola nera che è stata finora il "cerchio magico" del regime presieduto dal dittatore siriano Bashar al-Assad.
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