Il nuovo presidente di Cuba si chiama Miguel Díaz-Canel, e non è un membro della famiglia Castro. Con il passaggio di consegne avvenuto il 19 aprile, a Cuba dopo ben sessant’anni volge al termine un’era: quella iniziata con l’ascesa al potere del líder maximo Fidel Castro nel 1959 e continuata nell’ultimo decennio con le prime aperture e riforme intraprese da suo fratello Raúl. Che oggi, ottantaseienne, lascia il potere.
Le riforme realizzate da Raúl Castro negli ultimi dieci anni hanno dato ai cubani la possibilità di mostrare la loro capacità e voglia di fare attività economica: si stima che oggi vi siano circa 580.000 piccoli imprenditori nel settore privato.
Il Venezuela deve essere invaso da truppe di una coalizione formata da Stati Uniti, Europa e America Latina, su invito dell'Assemblea nazionale venezuelana, controllata dall’opposizione. Questo "esercito di liberazione" dovrebbe imporre un nuovo governo, sostituendo il regime di Nicolás Maduro, che nel frattempo soffrirebbe una procedura di impeachment da parte dei parlamentari venezuelani.
La scomparsa di Fidel Castro rappresenta la fine di un’era per Cuba e per la politica internazionale. L’uomo che era convinto di aver incarnato spirito, umori e sentimenti di un popolo, di una nazione e di una rivoluzione ha lasciato invece un’eredità controversa e un presente complesso. Controversa, perché nel corso della sua vita, il Líder Máximo ha detto tutto e il suo contrario, prospettando un futuro radioso e vincente, ma lasciando invece una realtà totalmente differente.
La storica visita (20–22 marzo) di Barack Obama a L’Avana – la prima di un presidente Usa in carica dal 1928 – rappresenta un passaggio fondamentale nel processo di distensione diplomatica che Stati Uniti e Cuba stanno conducendo dal dicembre 2014. Un cambio di tendenza che aveva già trovato conferma nel viaggio di John Kerry nell’isola e nella partecipazione del rappresentante cubano a Washington, lo scorso luglio, in occasione della riapertura delle rispettive ambasciate. In questo senso, la visita cubana di Obama potrebbe costituire un ulteriore passo verso l’obiettivo ultimo: la fine dell’embargo in vigore da oltre mezzo secolo. Nonostante il clima politico favorevole, permangono ancora numerosi temi di scontro (immigrazione clandestina, Guantánamo, diritti umani), che potrebbero rallentare o porre degli ostacoli nel processo di riappacificazione. Saranno dunque i prossimi mesi a definire se la scelta di Obama di visitare Cuba rappresenta qualcosa di più di una semplice scommessa.
Cuba non è solo un luogo. È la chiave di una porta chiamata America Latina. Lo aveva compreso, già nell’Ottocento, il poeta e rivoluzionario José Martí. Fu lui a vagheggiare l’idea di un’isola in cui i popoli potessero ritrovarsi in amicizia, “oltre le strettoie degli istmi e le barriere dei mari”. Una frase citata – non casualmente – da Papa Francesco all’arrivo dell’aeroporto dell’Avana, lo scorso 19 settembre.
Un viaggio storico. La visita di Obama assume un importante valore simbolico, equiparabile a quanto avvenuto in Myanmar (novembre 2014), quando incontrò il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, e in Egitto, con il celebre discorso all’Università del Cairo (giugno 2009). L’obiettivo politico è quello di lanciare un messaggio di speranza ai cubani, soprattutto in vista di una data importante, quel 24 febbraio 2018 che dovrebbe segnare l’uscita di scena di Raúl Castro.
Già nel 2009 la XIX assemblea dell’Organizzazione degli Stati Americani di San Pedro de Sula aveva annullato l’espulsione di Cuba del 1962. Il governo dell’Avana, pur ringraziando, aveva detto di non essere interessato a rientrare. Poi Raúl Castro ha accettato l’invito all’ultimo vertice di Panama dell’11 e 12 aprile scorso, che è stata anche l’occasione per uno storico incontro con Barack Obama. Cuba, peraltro, dalla fondazione è membro della Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici.
Per oltre cinquant’anni l’embargo commerciale nei confronti di Cuba – iniziato dal presidente Dwight Eisenhower nel 1960 – ha impedito a due paesi distanti appena 150 chilometri lo sviluppo di normali relazioni economiche. L’apertura delle ambasciate di Cuba e Stati Uniti il 20 luglio 2015 porrà fine formalmente a quel muro politico e diplomatico che li divide, ma una normalizzazione delle relazioni economiche sarà tuttavia molto lenta e complicata.
La caduta dell'ultimo muro, quel muro d'acqua che separa Miami da L'Avana, gli Stati Uniti da Cuba, ha molti padri: Raúl Castro e Barack Obama, ma anche Fidel, il Papa e persino la lobby economica della Florida ormai convinta dell'inutilità dell'embargo, in vigore da oltre 50 anni. Ma come spesso è accaduto nelle vicende dell'isola caraibica «la causa es la economia», omologo cubano dell'inglesismo «It's the economy, stupid».
Cuba è storicamente per gli Stati Uniti fonte di grande attenzione strategica, economica e diplomatica. In primo luogo per motivi geografici, L’Avana – spesso suo malgrado – non ha mai davvero potuto sottrarsi allo sguardo interessato di Washington. E quando ha provato a farlo, la Casa Bianca non ha assistito passivamente: prima, nel 1903 a seguito dell’indipendenza, le ha imposto un protettorato; poi, all’inizio degli anni Sessanta poco dopo la revolución, le ha applicato un embargo commerciale che continua tutt’oggi.