Caracas ribolle. La piazza è in fermento. E il governo pure. In gioco, però, non c’è solo la tenuta del bolivarismo, ma un complesso sistema di equilibri regionali. Chávez – e di conseguenza, al di là dello scarso carisma, il successore – ha segnato una pagina di storia latinoamericana. Al Venezuela si intrecciano dunque i destini dei vicini. Primo fra tutti l’amico-nemico di sempre: la Colombia.
All'inizio del suo mandato il presidente Maduro ha trovato una situazione economica difficile caratterizzata da bassa crescita ed elevata inflazione. Dopo un anno la situazione è molto più grave: il paese è probabilmente entrato in recessione e negli ultimi dodici mesi i prezzi sono cresciuti del 60% circa.
La proposta di Zbigniew Brzezinski, esposta dall'ex consigliere di Jimmy Carter per la Sicurezza nazionale sul Financial Times, è accattivante: «se l'Europa - auspicabilmente insieme alla Russia - ha il dovere di aiutare l'Ucraina a non precipitare in un caos finanziario, allo sforzo sarebbe opportuno che partecipassero anche (o soprattutto!) i grandi oligarchi nazionali, magari con un'offerta di un miliardo di dollari a testa.
Nel 2013 il Pil italiano, che era sceso molto l’anno prima, ha continuato a diminuire di quasi il 2%. La politica di bilancio si è sforzata di mantenere il rapporto fra deficit e Pil sotto il limite del 3% imposto dalla disciplina europea. Data la notevole diminuzione del denominatore del rapporto, ciò non è stato facile. È diffusa l’idea che la recessione italiana sia dovuta anche all’austerità imposta da Bruxelles. Come andrà nel 2014?
La lunga serie di aspettative tradite che costella la storia del processo d’integrazione europea offre numerose ragioni per diffidare di qualunque discorso in cui si sostenga l’importanza delle scadenze istituzionali dell’Unione europea. D’altro canto, l’acuta crisi politica che l’Unione vive in questo momento non fa che aumentare tale sentimento di sfiducia. Nonostante ciò, la seconda metà del 2014 potrà davvero rappresentare un momento decisivo per le sorti dell’Ue, poiché già dalla fine dell’anno i suoi vertici istituzionali saranno quasi completamente rinnovati.
La globalizzazione contemporanea ha creato una crescente asimmetria tra il potere economico-finanziario che opera a livello globale e il potere politico che agisce ancora prevalentemente su scala nazionale. Ciò comporta un’erosione di sovranità che limita le opzioni di politica economica e sociale e i poteri di regolazione dei governanti nazionali e la loro capacità di realizzare i programmi e render conto dei risultati a cittadini elettori che si sentono sempre più impotenti e irrilevanti.
In principio ci sono stati gli indignados spagnoli, le occupazioni di luoghi simbolo dei “no Wall Street”, le primavere arabe, le manifestazioni a Mosca e San Pietroburgo: poi, quest’anno le proteste in Portogallo, Bulgaria, Romania, Brasile, Turchia, di nuovo Egitto e Grecia, Thailandia, Cile, Perù, Ucraina.
La grande novità della Francia per il 2014 potrebbe essere una vecchia conoscenza, Nicolas Sarkozy. Il ritorno sulla scena dell’ex presidente è più che una speculazione giornalistica. Lo vogliono la cerchia di fedelissimi, gran parte dell’elettorato moderato e soprattutto lo vuole lui. Qualcuno, con enfasi bonapartista, parla di “destino”, anche se c’è da dubitare che basti un revival carismatico a colmare il fossato fra cittadini ed élite e la sfiducia generalizzata nel sistema paese.
Diceva bene Ian Bremmer, presidente di Eurasia Group, qualche giorno fa, a proposito della scelta di Obama di smettere di fumare, che ha trovato ampio spazio sui rotocalchi americani: «Looks like Obama picked the wrong presidency to give up smoking».
Il punto di non ritorno è forse già arrivato. Lo shutdown statunitense sarà terminato con buona probabilità entro pochi giorni e lo spettro del default tecnico per via del debt ceiling non si materializzerà mai sotto l’amministrazione di Barack Obama. Quello che è significativo è però un altro aspetto. Il braccio di ferro fra Democratici e Repubblicani sta diventando l’emblema dell’italianizzazione della politica statunitense, facendo perdere di credibilità gli Usa.
Lo “spegnimento” di tutte le attività federali non essenziali, firmato da Obama lo scorso 1° ottobre, rappresenta la terza grave crisi politica attraversata dagli Stati Uniti nel 2013.
Con ogni probabilità, nemmeno il 2013 sarà, per Barack Obama, l’anno dell’auspicato “change”. Piuttosto, il braccio di ferro con il Congresso a maggioranza repubblicana intorno al tema del tetto del dedito federale – che dal primo ottobre ha portato allo “shutdown” di una lunga lista di servizi e alla messa in aspettativa di quasi un milione di dipendenti pubblici – sembra rappresentare l’ennesimo momento di difficoltà di un presidente fino a oggi incapace di soddisfare le attese (forse eccessive) sollevate all’epoca della sua elezione.
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