Negli ultimi anni, non è un mistero come la politica economica della Cina abbia puntato sulle esportazioni secondo un modello di sviluppo che metteva in secondo piano il consumo interno. Si è trattato di una scelta largamente condivisa nel Partito Comunista dato che uno dei maggiori detrattori di questa scelta, l’ex “principino rosso” Bo Xilai, è caduto ormai in disgrazia.
Barack Obama aspetta l’esito delle elezioni tedesche sperando di veder emergere a Berlino un governo capace di affiancare gli Stati Uniti nell’accelerare la crescita dei paesi industrializzati durante i tre anni che rimangono alla fine del suo mandato.
L’eccessivo ottimismo, come d’altronde l’eccessivo pessimismo, è cattivo consigliere, nella vita quotidiana come nell’analisi politica. Le prossime elezioni in Germania, con l’atteso rinnovo del Bundestag dopo quattro anni di un governo democristiano-liberale, inducono molti osservatori a sperare in grandi cambiamenti nella politica europea della Repubblica Federale. In realtà, è preferibile rimanere cauti.
Tra le questioni più rilevanti alla base delle tensioni che si sono verificate negli ultimi anni nell’Eurozona vi è quella degli squilibri nelle bilance commerciali e nelle partite correnti. Nel corso dell’ultima decade, il divario tra paesi in avanzo (generalmente nord europei) e quelli in disavanzo (generalmente del sud Europa) si è mostrato molto persistente e si è ampliato (si veda Fig. 1)
Figura 1
I greci seguono le elezioni tedesche con interesse piuttosto distaccato. Non si aspettano granchè dal loro esito. Sia i media che le forze politiche sembrano convinti che non ci saranno cambiamenti nella politica economica che la Germania detta e impone, fin da quando è scoppiata la crisi del debito, a tutta l’Unione Europea.
L’assedio del Parlamento bulgaro avvenuto nella notte tra gli scorsi 23 e 24 luglio, nel corso del quale almeno una ventina di persone sono rimaste ferite negli scontri tra manifestanti antigovernativi e forze di sicurezza, non ha che potuto riportare alla mente le immagini dell’assalto allo stesso Palazzo nel 1996/97.
Il 16 luglio ha giurato di fronte al presidente ad interim Adly Mansour il nuovo esecutivo egiziano guidato da Hazem al-Beblawi, un economista di fama internazionale che aveva retto per pochi mesi nel 2011 il dicastero dell’economia nel concitato periodo seguito alla caduta del regime di Hosni Mubarak.
Si chiamava incoerenza. Il governo dei Fratelli Musulmani proclamava grandi riforme economiche: riguardo alle privatizzazioni e al ruolo dello stato aveva posizioni simili a quelle dei repubblicani americani. Poi non accadeva nulla o pochissimo. Le nuove leggi sui sussidi, sugli investimenti esteri, sul sistema fiscale non hanno mai visto la luce, lasciando le condizioni economiche del paese in uno stato sempre più disperato.
Un milione di persone in piazza, proteste e violenze. Ciò che sta accadendo in Brasile è piuttosto inusuale, per un paese pacifico e poco incline agli scontri tra classi sociali. A maggior ragione durante un torneo calcistico, la Confederation Cup. Il calcio, si sa, in Brasile può ipnotizzare un intero paese. Ma allora perché sono esplose queste tensioni? Che sta succedendo? E poi proprio ora, dopo la lunga galoppata dell’economia brasiliana che ha beneficiato decine di milioni di abitanti.
Che cosa accade in Brasile? La domanda, declinata in varie lingue, accenti e sfumature, si ripete sulle prime pagine delle principali testate giornalistiche internazionali. Come pure negli studi di accademici e ricercatori, oltre che ovviamente negli uffici del Palazzo governativo di Planalto. La rivolta sociale, cominciata il 13 giugno a San Paolo per protestare contro l’aumento del biglietto dei bus ed estesasi inesorabilmente per il “gigante latinoamericano”, ha sorpreso l’opinione pubblica.
«La Turchia è qui!», è uno degli slogan che è risuonato nella protesta brasiliana. E non c’è dubbio che c’è l’esempio di un’onda lunga di proteste che tra indignados, Occupy Wall Street, Primavere arabe, studenti cileni va ormai avanti da almeno tre anni, superando ormai per durata altre famose date “rivoluzionarie” del passato. Evidenti sono poi certe affinità.
«I’m not going to the World Cup». Con queste parole Carla Dauden, giovane film maker brasiliana, apre lapidariamente la descrizione socioeconomica del suo paese, che si appresta a ospitare l’anno prossimo i Mondiali di calcio e le Olimpiadi nel 2016.
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