Le mine vaganti di Donald Trump
Taiwan, Yemen e Cuba: così l’amministrazione Trump riempie il cammino di Biden in politica estera di mine vaganti.
Taiwan, Yemen e Cuba: così l’amministrazione Trump riempie il cammino di Biden in politica estera di mine vaganti.
Taiwan, Yemen e Cuba: così l’amministrazione Trump riempie il cammino di Biden in politica estera di mine vaganti.
Il “popolo” cubano ha approvato la nuova Costituzione: nel plebiscito di domenica scorsa, ha votato oltre l’80% degli aventi diritto ed oltre l’80% ha detto sì. Buffo: ovunque nel mondo sarebbe un trionfo; ma non a Cuba, il regno che Fidel Castro volle unanime: “Siamo un solo popolo, diceva, pensiamo tutti uguale, ci unisce la stessa fede, siamo una sola persona, tutti insieme formiamo un fascio”. A Cuba, il No non è previsto, ammesso, contemplato; chi nega tradisce, chi dissente bestemmia in chiesa! In passato era quasi assente.
A Cuba non è mai come appare: poiché l’Assemblea Nazionale elegge il Consiglio di Stato e il Consiglio di Stato elegge il nuovo presidente che di cognome fa Díaz-Canel, tutti dicono che finisce l’era Castro. Ma non è mica vero: ad oggi, tutto cambia sull’isola perché nulla cambi. Di presidenti che non si chiamavano Castro, Cuba ne ebbe due. Il primo l’aveva messo in sella Fidel dopo la Rivoluzione. Dopo pochi mesi lo tirò giù dal cavallo; dovette fuggire in esilio.
Il nuovo presidente di Cuba si chiama Miguel Díaz-Canel, e non è un membro della famiglia Castro. Con il passaggio di consegne avvenuto il 19 aprile, a Cuba dopo ben sessant’anni volge al termine un’era: quella iniziata con l’ascesa al potere del líder maximo Fidel Castro nel 1959 e continuata nell’ultimo decennio con le prime aperture e riforme intraprese da suo fratello Raúl. Che oggi, ottantaseienne, lascia il potere.
Le riforme realizzate da Raúl Castro negli ultimi dieci anni hanno dato ai cubani la possibilità di mostrare la loro capacità e voglia di fare attività economica: si stima che oggi vi siano circa 580.000 piccoli imprenditori nel settore privato.
Poiché le società sono perfettibili, qualsiasi tentativo di frenare la loro evoluzione porta alla stagnazione. E se, invece di lavorare a questo perfezionamento, i governi responsabili si impegnano a protrarre l’immobilismo, allora ecco che cominciano a saturare le prime pagine con la difesa dei propri “successi”. A Cuba, il proposito rivoluzionario era ancorato al passato e ha fatto precipitare il paese nella più profonda crisi della sua storia.
A metà degli anni Cinquanta del Novecento, Cuba riassumeva molti dei mali dell’America Latina. Corruzione, malaffare, profonde disuguaglianze economico-sociali erano alcuni dei tratti dominanti di questa piccola isola situata a poche miglia dalle coste statunitensi. La disparità fra una minoranza di ricchi e una maggioranza di popolazione che viveva in condizioni disagiate se non di vera e propria povertà, era abnorme, in particolar modo a livello rurale.
La più grande isola dei Caraibi, Cuba, fu una pedina fondamentale dell’espansione spagnola nel continente americano. Portaerei in mezzo al “nuovo Mediterraneo”, base logistica, mercato degli schiavi, sede delle istituzioni politiche, culturali e religiose della colonia. Una centralità persa parallelamente al declino del colonialismo spagnolo, finito proprio a Cuba con la guerra tra Spagna e Stati Uniti del 1898. Quel conflitto segnò il definitivo passaggio dei Caraibi sotto l’egida degli Stati Uniti.