Nella notte tra il 6 e il 7 aprile, gli Stati Uniti hanno lanciato un attacco con 59 missili Tomahawk dalle navi di stanza nel Mediterraneo, contro la base siriana da cui sarebbero partiti i bombardamenti con armi chimiche contro Idlib – che hanno ucciso circa 80 persone, tra cui diversi bambini – lo scorso 5 aprile.
“Sostegno totale” a una “decisione coraggiosa”. Così, in un comunicato stampa ufficiale, l’Arabia Saudita ha commentato l’attacco statunitense di questa notte contro una base militare del regime siriano, nell’area di Homs. Di certo, l’attacco chimico perpetrato dall’aviazione di Bashar al-Assad a Khan Cheikhoun (provincia di Idlib), è l’ennesimo colpo di scena in un conflitto, quello siriano, che ha già vissuto innumerevoli mutazioni.
Per capire la portata quantomeno simbolica del riavvicinamento tra il Cairo e Mosca basta notare l'irritazione di Washington che attraverso il Dipartimento di Stato replica piccata all'endorsement di Putin alla candidatura del ministro della Difesa al Sisi alla poltrona che fu di Mubarak: «Noi non sosteniamo nessuno e non credo che, molto francamente, spetti agli Stati Uniti o al signor Putin decidere chi debba governare l'Egitto» fa sapere la portavoce Marie Harf.
L’analisi dei cambiamenti avvenuti nella struttura di controllo e repressione del potere di Damasco e nella gestione delle risorse dedicate alla contro-insurrezione mostra un coinvolgimento sempre più diretto di uomini e mezzi iraniani e russi.
La notizia del nuovo rinvio della conferenza Ginevra 2 a (almeno) l’inizio di dicembre non ha sorpreso nessuno. Non ha sorpreso nemmeno che le due parti, il regime e l’opposizione, si stiano rimpallando la responsabilità: il primo vuole la presenza dell’Iran al tavolo negoziale e la garanzia che le dimissioni di Assad non siano una condizione per l’inizio delle trattative, la seconda pretende che la fine del dittatore sia messa per iscritto come requisito necessario per l’inizio di qualunque dialogo.
Ad Ali Ferzat tre anni fa hanno spaccato le mani nel pieno centro di Damasco. L’accaduto fece il giro del mondo e diede fama internazionale al vignettista siriano che fino ad allora era stato molto amato e letto solo nel mondo arabo.
La proposta russa di sottomettere l’arsenale chimico siriano al controllo internazionale, accettata dal regime di Damasco, apre nuovi spiragli diplomatici che potrebbero influenzare un’eventuale decisione USA di attaccare la Siria in risposta proprio all’uso di armi chimiche. Saranno importanti i dettagli tecnici, che ci diranno se la proposta è davvero applicabile. Li scopriamo in 10 punti.
La ribellione siriana, prima pacifica e poi armata, ha già mietuto 100 mila morti, 2 milioni di rifugiati e circa 5 milioni di sfollati. Da quando l’America di Obama è entrata prepotentemente in scena minacciando di bombardare obiettivi del regime di Damasco, questa ennesima tragedia mediorientale è rientrata nelle prime pagine dei giornali e dei telegiornali di tutto il mondo. «Obama bombarderà la Siria», oppure «Obama rimanda il bombardamento della Siria», sono i titoli “standard” che incontriamo sempre più frequentemente in queste ultime settimane.
«Speriamo che questo segni la fine del cosiddetto ‘Islam politico’», è il commento sugli eventi degli ultimi giorni in Egitto di un amico che vive al Cairo da molti anni e che, pur essendo un profondo conoscitore dell’Islam, ne ha sempre guardato con diffidenza le ambizioni politiche. Sono in molti a pensarlo, e ad auspicarlo.
A pochi giorni dal prossimo incontro della coalizione internazionale “Amici della Siria” a Roma, la situazione nel paese degenera quotidianamente con rischi sempre più evidenti di uno spillover regionale del conflitto.
Autobomba a Beirut. Uno dei titoli che la triste storia recente del Libano ha reso quasi un luogo comune. Venerdì, nelle prime ore che seguivano l’esplosione avvenuta ad Ashafieh, uno dei quartieri cristiani più popolosi nel pieno centro della città, la paura maggiore diffusa dentro e fuori il paese era che si trattasse di un attentato rivolto genericamente contro la comunità cristiana, richiamando quello che è un altro triste luogo comune libanese: la guerra settaria.
Una delle colonne portanti per la stabilità del regime degli Assad negli ultimi 40 anni è stata la capacità di “comprare consenso” attraverso l’elargizione di risorse economiche sotto forma di sussidi e impieghi statali ben remunerati e poco produttivi. Tale politica, tipica del rentier state, è stata resa possibile dalla rendita derivante dalle esportazioni petrolifere che, seppur limitate (circa 385.000 di barili al giorno nel 2010 contro i 9,5 milioni attuali dell’Arabia Saudita), hanno sempre costituito la principale fonte di entrate per lo stato siriano.