Se Romney corteggia Israele per conquistare il Gop
Quattro anni dopo l’inizio di tutte le grandi speranze che sottintendeva «Yes, we can», il conflitto fra Israele e palestinesi è esattamente al punto in cui l’aveva lasciato George Bush. Forse peggio: oggi ci sono più coloni e più avamposti israeliani nei Territori occupati palestinesi. Nel 2010 di questi giorni Barack Obama aveva annunciato che nel 2011, l’assemblea generale delle Nazioni Unite avrebbe celebrato la nascita dello Stato palestinese. Non è accaduto allora e nel 2012 nemmeno se ne parlerà.
Le accuse reciproche, il gioco duro e la rappresentazione dell’avversario come minaccia per il futuro del Paese appartengono allo stile e alla liturgia delle elezioni americane. Fortunatamente gli elettori degli Stati Uniti non hanno perduto il senso sportivo della competizione politica e possiamo già immaginare la correttezza con cui il candidato sconfitto, dopo il voto del prossimo novembre, farà al vincitore i suoi auguri più cordiali. Tutto, quindi, secondo copione? No, vi sono in questa campagna elettorale i segni di uno scontro che sembra avere superato i limiti di guardia.
Se c’è un posto al mondo in cui la vittoria di Barack Obama del 2008 è stata festeggiata tanto, persino più che nel suo quartier generale di Chicago, è stato in Africa: a Kogelo, nel villaggio natale di Obama Senior, per festeggiare l’elezione del figlio si macellò un vitello, in Kenya il giorno successivo all’elezione venne dichiarato festa nazionale.
US foreign policy towards the Middle East has generally been formed on certain fundamentals that were steadily defined and refined during the past six decades with the aim of protecting America's vital interests in the region. From this perspective, the party affiliation of the President – republican or democrat – compared to happenings in the region itself, mattered less in triggering major swings in US foreign policy towards the Middle East.