Alle elezioni del 9 maggio, settanta milioni di cittadini filippini sono chiamati a votare un nuovo presidente e a rinnovare il Parlamento. Rispetto ai suoi due predecessori, il presidente delle Filippine uscente Rodrigo “Rody” Duterte ha interpretato nei suoi sei anni a Palazzo Malakanyang il proprio ruolo istituzionale in maniera non convenzionale, avendo fatto ricorso a un linguaggio crudo e provocatorio, rilasciato dichiarazioni ufficiali talora semplicistiche e portato avanti una strategia in politica sia interna sia estera non sempre lineare.
Almeno 16 morti nella peggior tempesta del 2020. La capitale Manila sembra aver scongiurato il peggio, ma sono centinaia di migliaia gli evacuati. Un’operazione resa ancor più complicata a causa dell’epidemia da Covid.
La visita effettuata dal controverso presidente filippino Rodrigo Duterte a Pechino questa settimana conferma come l’Asia orientale sia davvero una delle aree del mondo geopoliticamente più dinamiche. Durante l’incontro con il presidente cinese Xi Jinping, Duterte ha affermato che “gli Stati Uniti hanno perso”, “le Filippine lasciano gli Stati Uniti” e “[le Filippine] sono insieme a Cina e Russia contro il mondo”.
Dall’intesa con l’Australia (novembre 2011) sull’invio di 2500 marines nella base di Darwin, primo passo verso la costruzione di una cornice militare per la strategia del Pivot to Asia, sono dovuti trascorrere quasi tre anni – a parte le facilities ottenute da Singapore – perché il presidente Barack Obama facesse il secondo passo: l’accordo di “difesa rafforzata” con le Filippine stipulato il 28 aprile a margine della sua visita nell’arcipelago.