Grazie a diplomazia vaccinale e diversificazione economica, di fronte alla guerra gli EAU si presentano con un nuovo ruolo geopolitico.
Tre mesi dopo l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, ci sono buone notizie e cattivi presagi per le monarchie del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG). Nel breve-medio periodo, le buone notizie riguardano il prezzo di petrolio e gas: con rendite più elevate, le monarchie possono scegliere di allungare i tempi della diversificazione economica mitigandone, ancor più, le ricadute sociali, a tutela così della stabilità politica interna.
La crisi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), culminata nella rottura dei rapporti diplomatici fra il “quartetto”, ovvero Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto (quest’ultimo non appartenente al Gcc) e il Qatar, prosegue da ormai due anni.[1] Nonostante la mediazione interna del Kuwait e la (balbettante) facilitazione esterna targata Stati Uniti, non si intravvede una rapida risoluzione della crisi: una rottura che è personale, poiché consumatasi a livello di leadership, e insieme politica.
Lo scorso lunedì, il ministro dell’energia del Qatar Saad Sherida al-Kaabi ha reso nota l’intenzione di Doha di abbandonare - a partire dal prossimo gennaio - l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC), alla quale il paese appartiene dal 1961. La decisione del Qatar è arrivata alla vigilia del vertice OPEC di giovedì e venerdì a Vienna, durante il quale i paesi membri, insieme ai principali non membri, dovranno formulare una risposta all’attuale crisi dei prezzi.
Tutti gli occhi erano puntati su Hormuz.
Nel 1914, dopo l’omicidio dell’arciduca Ferdinando, l’ultimatum che l’Austria inviò alla Serbia fu scrupolosamente redatto per essere respinto. Così i 13 punti “non negoziabili” e da sottoscrivere entro il 3 di luglio, che l’Arabia Saudita e i suoi sodali hanno presentato al Qatar.
Nei suoi quasi due anni di regno, Re Salman si è trovato ad affrontare sfide di particolare complessità: una crisi economica con pesanti riflessi sul mercato petrolifero e quindi sull'economia del Regno; le minacce del terrorismo di matrice islamica ai confini del paese; il collasso di Iraq e Siria, due stati fondamentali per gli equilibri della regione; la guerra in Yemen; un quadro di alleanze sempre più volatile, compreso il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti; preoccupanti segnali di difficoltà per il "contratto sociale" basato sullo scambio tra assenza di diritti
L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, l’Egitto e il Bahrein hanno interrotto tutti i rapporti diplomatici con il Qatar, il piccolo emirato del Golfo che proprio con l’Arabia Saudita condivide il suo unico confine terrestre. Ai quattro si sono poi aggiunti anche le Maldive, il governo della Libia orientale – sostenuto dall’Egitto e non riconosciuto dall’Onu – e infine lo Yemen, afflitto da una guerra sanguinosissima in cui proprio una coalizione a guida saudita svolge un ruolo di primo piano.
La nomina del trentunenne Mohammed bin Salman a nuovo principe ereditario al trono dell’Arabia Saudita rappresenta l’ennesimo, e forse decisivo, segnale del cambiamento in atto nel regno dei Saud.
La spaccatura politica che sta andando in scena in questi giorni nel Golfo è l’ennesima riprova della fragilità delle relazioni interstatali nella Penisola arabica, un’area dal potenziale economico ancora pienamente inespresso e allo stesso tempo incapace di produrre una politica estera regionale (o addirittura internazionale) unificata che marci nella stessa direzione.
“Sostegno totale” a una “decisione coraggiosa”. Così, in un comunicato stampa ufficiale, l’Arabia Saudita ha commentato l’attacco statunitense di questa notte contro una base militare del regime siriano, nell’area di Homs. Di certo, l’attacco chimico perpetrato dall’aviazione di Bashar al-Assad a Khan Cheikhoun (provincia di Idlib), è l’ennesimo colpo di scena in un conflitto, quello siriano, che ha già vissuto innumerevoli mutazioni.
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