Le elezioni interne ad Hamas iniziate nel gennaio scorso [1] e volte a scegliere la nuova dirigenza al potere nella Striscia di Gaza hanno definito un ulteriore step nel processo di radicalizzazione politica che il gruppo islamista sta conoscendo da alcuni anni a questa parte.
Apparentemente, è il più ignorato degli attesi protagonisti del caos mediorientale. I qaidisti di Jabhat al-Nusra non lo menzionano mai; nei proclami dello Stato Islamico è molto più citata la conquista di Roma che la “liberazione” di Gerusalemme; Bashar al-Assad ha ormai altri problemi, ed è scomparso dalla retorica e dalla propaganda arabe che per oltre mezzo secolo lo avevano usato per raccogliere facili consensi popolari.
Le tensioni emerse negli ultimi mesi tra Hamas e i gruppi locali salafiti hanno alimentato nuove speculazioni circa la possibile penetrazione politica, ideologica e militare dello Stato Islamico (IS) nella Striscia di Gaza.
Il fallito tentativo del segretario di stato americano, John Kerry, di negoziare un cessate-il-fuoco fra le Forze armate israeliane e le milizie di Hamas impegnate nella Striscia di Gaza, è una vicenda che pone importanti interrogativi sia riguardo all’evoluzione dei rapporti fra Washington e Tel Aviv nel corso degli ultimi anni, sia – più in generale – riguardo alla capacità della diplomazia Usa di continuare a incidere, nel prossimo futuro, sul delicato sistema degli equilibri mediorientali.
C’era una volta un Egitto che faceva il bello e il cattivo tempo in Medio Oriente. C’era un volta un rais inviso a tutti i suoi partner arabi e osservato con sospetto in occidente, le cui soluzioni salomoniche, tuttavia, sapevano arrestare le vampate di guerra che periodicamente seminavano morti e feriti tra israeliani e palestinesi. Oggi di Hosni Mubarak nessuno sente la mancanza. Ma tra lui e il suo delfino, la differenza in fatto di spregiudicatezza diplomatica è notevole.
Israele ha recentemente lanciato l’operazione “Protective Edge” (Bordo difensivo) per fermare il lancio di razzi provenienti da Gaza, in una ripetizione dell’operazione “Pillar of Defence” di novembre 2012 e delle fasi iniziali dell’operazione “Cast Lead” di fine 2008-inizio 2009. Cerchiamo di capirci un po’ di più, in 7 punti:
La crisi scoppiata tra Israele e Hamas in seguito al ritrovamento dei corpi di tre giovani coloni e all’uccisione di un giovane palestinese non accenna a placarsi. La spirale di violenze si è rapidamente estesa dalla Cisgiordania a Gaza, dove le forze di sicurezza israeliane hanno risposto duramente al lancio di oltre 200 razzi delle fazioni palestinesi più estremiste con l’operazione Protective Edge, che da lunedì a oggi ha causato 53 vittime e circa 500 feriti tra gli abitanti della Striscia. In questo contesto di violenza crescente, l’eterogeneo esecutivo di Netanyahu, alla ricerca di una linea, ha minacciato un intervento di terra a Gaza, mobilitando 40 mila riservisti.
Uscita di scena. Così, tutto d'un tratto, come d'un tratto Gerusalemme era stata messa sul palcoscenico del conflitto israelo-palestinese. Nel giro di pochissimi giorni, di Gerusalemme non si parla più, perché l'asse del confronto è stato di nuovo dirottato verso Gaza. La nuova operazione militare israeliana sulla Striscia - con l'altissimo prezzo che la popolazione palestinese sta pagando in termini di vittime, feriti, distruzioni di abitazioni civili - ha concentrato ancora una volta il conflitto in uno scontro a due.
Come spesso è accaduto nella storia recente le sorti dei palestinesi e di Gaza si legano a doppio filo con quelle d’Egitto. Anche nel caso dell’operazione “Soglia di protezione”, il Cairo è uno spettatore interessato a osservare gli effetti del conflitto israelo-palestinese e a tentare di orientarne l’andamento e gli sviluppi.
Intervista di Arturo Varvelli, ISPI Research Fellow
La reazione all'invettiva di vendetta lanciata da alcuni esponenti della World Bnei Akiva è virale. Dopo la pretesa di farsi giustizia da sé per vendicare i tre ragazzi uccisi a Hebron, la maggioranza non silenziosa dei giovani israeliani ha cominciato ad alzare la voce, sia in patria sia all'estero, così come sui social network. «Not in my name». I giovani ebrei moderati, razionali ed educati ai principi dello stato di diritto e della società civile rifiutano gli estremismi e li isolano.
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