All’indomani del tentativo di insediamento a Tripoli del governo di unità nazionale guidato dal premier incaricato Fayez al-Sarraj, sembra concretizzarsi l’ipotesi di un intervento militare che veda l’Italia tra gli attori principali, se non addirittura alla guida formale della coalizione internazionale composta, tra gli altri, da Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
La complessità del quadro siriano e del pericolo di IS per l’Europa ha costretto il governo di Berlino ad abbandonare la dottrina del non-intervento e decidere d’intervenire militarmente in Siria, una svolta nella storia della recente politica estera tedesca. Angela Merkel desidera così dare alla Germania un nuovo ruolo internazionale, ma, sembra, soprattutto rilanciare internamente la sua politica, che parrebbe tutt’altro che sulla via del tramonto.
Afghanistan chiama Cina, con il beneplacito di Washington; e Cina risponde, ma con circospezione se non proprio di malavoglia. L’opinione diffusa nell’entourage del presidente Xi Jinping, che si riflette negli editoriali dei giornali che contano, è evidente. Per gli Stati Uniti l’avventura afghana ha avuto costi elevatissimi sotto tutti i punti di vista, certo incompatibili con la modestia dei risultati.
Alcune crisi internazionali in corso (si pensi in particolare alle operazioni militari contro l’IS o Isis) paiono mettere in discussione la tenuta della disciplina ‘tradizionale’ attinente al divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali ed alle sue eccezioni. È invece indiscutibile che l’intervento russo in Ucraina, per quanto possano essere ‘originali’ certe sue caratteristiche e modalità di attuazione, ricada tra le violazioni palesi del diritto internazionale.
La crisi che nel corso del 2014 ha travolto l’Ucraina è stata, comprensibilmente, l’epicentro di una serie di ripensamenti politico-strategici su diversi fronti. Le vicende ucraine hanno infatti investito, oltre gli assetti politici e i conflitti interni al paese, anche la politica estera russa e le diverse aspettative che i paesi occidentali avevano rispetto ai disegni politici di Putin, alla Nato e infine le priorità dell’Alleanza di fronte a una politica più assertiva da parte russa, l’Ue e le sue divisioni interne.
La Libia appare oggi un paese allo sbando, che vive una situazione di caos, vicina a quella che potrebbe definirsi una “multifactional civil war”, una guerra civile tra numerose fazioni, seppure a bassa intensità.
Dopo il Mali, la Repubblica Centrafricana. La seconda guerra di François Hollande, iniziata il 5 dicembre scorso, continua nell’ombra. La Francia dimostra una volta di più di perseguire una politica interventista nel continente nero, dispiegando migliaia di soldati, mezzi pesanti e aviazione nelle ex-colonie colpite da crisi securitarie. Queste “operazioni umanitarie” sono, in realtà, le ultime carte che l’Eliseo può giocarsi nell’estrema difesa dei privilegi economici della potenza coloniale che era.
L’adiz cinese
Dopo una breve parentesi di relativa tranquillità, di recente le acque del Mar Cinese Orientale sono tornate a intorbidirsi, contribuendo all’esacerbazione delle già non idilliache relazioni tra Tokyo e Pechino e a un generale clima di tensione nella regione.
A parte qualcuno che vive dalla parti della Russia (come ad esempio Vladimir Putin, che ha definito la fine dell’Unione Sovietica come “la piú grande catastrofe del XX secolo”) sono pochi, a Est e a Ovest, i nostalgici della Guerra Fredda. Eppure va riconosciuto che le conseguenze della sconfitta dell’Urss non sono state tutte positive sotto il profilo del sistema internazionale.