In zone di guerra e realtà politicamente instabili, le donne finiscono per essere due volte vittime delle drammatiche circostanze in cui vengono a trovarsi: sono schiacciate, infatti, sia dai traumi bellici, spesso appesantiti da contrasti politici e/o religiosi, sia dal potere maschile, perché il loro corpo, come sostiene il prof. Marcello Flores, paga “l'aggravante di essere donna”[1].
La caduta dello Stato Islamico a Sirte, ormai piuttosto scontata, sarà un passo fondamentale nella lotta contro l’organizzazione di Al-Baghdadi in Libia, ma è probabile che non costituisca la neutralizzazione definitiva del gruppo nel paese o in Nord Africa. Le forze della Tripolitania, e in particolare le milizie della città di Misurata, che rispondono formalmente al consiglio presidenziale di Fayez Serraj, sono in prima linea in questa battaglia e hanno costretto i miliziani radicali ad asserragliarsi in pochi quartieri della cittadina.
Il Medio Oriente è in fase di ridefinizione e il Syraq, quell’area operativa posta a cavallo di quelli che furono i confini dei due Stati di Iraq e Siria, è il principale campo di battaglia su cui si confrontano i soggetti a-nazionali (il fenomeno dello Stato islamico e gli altri gruppi di opposizione armata), che mirano a disegnare un nuovo Medio Oriente abbattendo un sistema geopolitico definito un secolo fa da Sykes-Picot, e gli attori della comunità internazionale che quel sistema tentano di mantenerlo.
Palmira, Tal Abyad e Manbij in Siria. Ramadi, Falluja e Tikrit in Iraq. Harawa, Nawfaliya e Sirte in Libia. Sono alcune delle principali città sottratte al controllo dello Stato Islamico (IS) nel corso dell’ultimo anno, e solo una parte delle 59 aree nevralgiche dalle quali il gruppo è stato espulso nello stesso arco di tempo in Siria, Iraq e Libia, i tre paesi dove lo Stato islamico ha materializzato negli ultimi due anni la sua utopia di stato califfale.
Lo Stato islamico (IS) è ormai da diversi anni un attore importante e cruciale della regione del Mediterraneo e un protagonista dei sommovimenti geopolitici che la stanno coinvolgendo. Vero è che negli ultimi mesi l’IS ha conosciuto svariate sconfitte che ne hanno ridotto considerevolmente il territorio controllato: ha perso in Iraq le città di Ramadi e di Falluja (che controllava dal 2014) ed è in ritirata anche a nord verso Mosul; in Libia il controllo di Sirte; in Siria diverse aree e non è riuscito a mantenere l’offensiva.
Le recenti sconfitte subite dallo Stato islamico (IS) in Siria e Iraq – non ultima quella di Manbij che ha bloccato la linea di rifornimenti del gruppo lungo la linea nord-occidentale siriana – e i possibili preparativi russo-statunitensi da un lato e russo-iraniani dall’altro per nuove operazioni militari da lanciare su Aleppo a breve termine ed entro la fine dell’anno su Raqqa e Mosul, hanno convinto i principali attori impegnati nel teatro di guerra siro-iracheno ad un ripensamento delle proprie strategie in nome di un cambio di passo significat
Ci sono luoghi periferici e sconosciuti in cui all’improvviso, in determinati momenti storici, si concentrano tensioni e forze tali da trasformarli in centri d’interesse internazionale. Diffa, capoluogo a qualche chilometro dalla frontiera della Nigeria della regione più povera del paese più povero al mondo, il Niger, è uno di questi ombelichi geopolitici. Qui come nell’intera area attorno al Lago Ciad da oltre un anno è attivo Boko Haram,
Le elezioni anticipate del 1° novembre 2015 hanno riportato al governo il Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) dopo una parentesi di instabilità e incertezza seguita al voto di giugno che non era riuscito a esprimere una forte maggioranza parlamentare. Stabilità e sicurezza hanno dunque costituito il binomio su cui si è basata la campagna elettorale dell’AKP, che ha modificato registro rispetto alla tornata precedente in cui l’accento era stato messo più sui temi del cambiamento, della promessa di una “nuova Turchia” e l’introduzione del sistema presidenziale.
Durante e subito dopo l’avvento delle cosiddette Primavere arabe, la domanda che era tornata a ricorrere in maniera quasi ossessiva era: “il mondo arabo è compatibile con la democrazia?”. Niente come tale quesito, spesso riproposto in salsa cultural-religiosa (“l’Islam è compatibile con la democrazia?”), risulta privo di senso, se l’obiettivo è quello di immaginare come possa evolvere la situazione politico-istituzionale nei paesi arabi.
Sono passati cinque anni da quando le prime pagine dei giornali di tutto il mondo moltiplicavano i volti dei ragazzi egiziani, tunisini, libici e in misura diversa e minore yemeniti, bahraini e siriani con le bandiere dei rispettivi paesi pitturate sulle facce radiose. Si ragionava di primavere arabe, risveglio mediorientale, rivoluzioni, i cronisti rilanciavano le parole d’ordine di una lingua fino a quel momento nota solo per le invocazioni coraniche, Ash-sha’b yurid isqat an-nizam, il popolo vuole la caduta del regime.
Apertosi con la successione al trono di re Salman, il 2015 ha visto un significativo ringiovanimento dei vertici governativi e della stessa Casa reale saudita – in primis con la nomina del 56enne Muhammad bin Nayef a Principe ereditario e Ministro dell'Interno, del figlio trentenne Mohammed bin Salman a Ministro della Difesa e del 56enne laico Adel bin Ahmed Jubeir agli Esteri – l'apertura di innovativi sbocchi riformistici in politica interna e l'affermazione di una ben più marcata assertività in politica estera, regionale e internazional