Lunghi anni di negoziato, dodici nell’insieme, condotti ufficialmente e segretamente; poi il loro rilancio con l’arrivo alla presidenza di Rouhani, la bozza d’intesa preliminare, i diversi rinvii, quindi i “Parametri” dell’aprile scorso; la scadenza del 30 giugno prorogata al 7, poi al 9 e infine la conclusione il 14 luglio.
Se qualcuno avesse dubbi sul senso più profondo, e sulle implicazioni geopolitiche, dell’accordo sul nucleare iraniano raggiunto a Vienna, basterebbe notare che il suo più accanito avversario, il primo ministro israeliano Netanyahu, invece di tracciare a cupe tinte lo scenario di un Iran genocida intenzionato a dotarsi di bombe atomiche per annientare Israele, si preoccupa che grazie all’accordo Teheran possa disporre di maggiori mezzi, e di minori limitazioni, per portare avanti il proprio disegno di egemonia regionale.
Apparentemente, è il più ignorato degli attesi protagonisti del caos mediorientale. I qaidisti di Jabhat al-Nusra non lo menzionano mai; nei proclami dello Stato Islamico è molto più citata la conquista di Roma che la “liberazione” di Gerusalemme; Bashar al-Assad ha ormai altri problemi, ed è scomparso dalla retorica e dalla propaganda arabe che per oltre mezzo secolo lo avevano usato per raccogliere facili consensi popolari.
Le tensioni emerse negli ultimi mesi tra Hamas e i gruppi locali salafiti hanno alimentato nuove speculazioni circa la possibile penetrazione politica, ideologica e militare dello Stato Islamico (IS) nella Striscia di Gaza.
Con chi sta l’Occidente? Iran o Arabia Saudita? Per anni il governo di Tehran è stato descritto come un ‘mostro’, nemico di libertà e democrazia e fondato su un potere teocratico. Il successo dei negoziati sul nucleare di Losanna ha però improvvisamente aperto nuove prospettive.
Non è un segreto che l’accordo sul nucleare iraniano sia oggi motivo di forti divisioni fra Tel Aviv e Washington. Come ricorda un bell’articolo di Amos Yadlin e Avner Golov su Foreign Affairs, ad allargare la distanza fra la visione israeliana e quella americana vi sono almeno quattro fattori. (...)
Il prossimo 17 marzo Israele si recherà alle urne per eleggere il nuovo parlamento. La sfida sembra giocarsi principalmente tra la formazione di centro-destra, il Likud dell’attuale Primo ministro Benjamin Netanyahu, e il blocco politico di centro-sinistra, “Campo sionista”, costituitosi appositamente per questo turno elettorale dall’unione tra il Partito laburista di Yithzak Herzog e il movimento centrista HaTnuah di Tzipi Livni. Importanti sorprese sembrano poter venire però dai partiti che rappresentano la popolazione araba di Israele, i principali dei quali si sono uniti quest’anno al partito di ispirazione comunista Hadash in una lista comune allo scopo di superare la soglia di sbarramento elettorale, di recente elevata al 3,25%.
La sfida elettorale del 17 marzo in Israele non è solo fra opposte coalizioni che ambiscono a governare il Paese ma fra diverse visioni del sionismo. Come ci dice l’ex presidente Shimon Peres, in una conversazione informale nella sua Fondazione a Jaffa, "cento anni fa i pionieri sionisti scelsero di cambiare il mondo degli ebrei e ci sono riusciti".
In fondo è come dappertutto una questione di destra e di sinistra. Bibi Netanyahu che è di destra, ha continuato a ignorare il problema del crescente costo della vita che sta falcidiando le prospettive della middle class la quale, esattamente per questo, quattro anni fa era scesa in strada a Tel Aviv. Di Netanyahu è anche rimasta famosa una dichiarazione economica: “Esclusi gli arabi e gli ultra-ortodossi, la nostra situazione è eccellente”.
Dalla caduta del terzo governo Netanyahu un’accesa campagna elettorale ha polarizzato Israele tra il partito della destra storica, il Likud, e la nuova lista dell’Unione Sionista - frutto dell’accordo tra i laburisti di HaAvoda, oggi guidati dall’avvocato Isaac Herzog, e Hatnuah, il partito centrista di Tzipi Livni.