La ripresa del round negoziale ginevrino sul dossier nucleare iraniano, il 20 novembre, ha vissuto la tragica vigilia di un duplice attentato contro l’ambasciata della Repubblica Islamica a Beirut, in Libano, costato la vita a 23 persone oltre al ferimento di altre 146.
A una settimana dall'intervento presso l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dei presidenti di Iran e Stati Uniti, l’ottimismo, seppur cauto, nei confronti di una possibile distensione nelle relazioni tra i due paesi non ha precedenti.
In queste settimane di colpi di scena e dichiarazioni contraddittorie il mondo ha seguito le vicende siriane con un’attenzione mai avuta prima in questi due lunghi anni di conflitto civile. L’attacco americano, che sembrava ormai imminente, si è improvvisamente trasformato in un inedito accordo a tre – regime siriano, Stati Uniti e Russia con la supervisione delle Nazioni Unite – riguardante la distruzione dell’arsenale chimico di Bashar al-Assad entro la metà del 2014.
Sono in molti a criticare il possibile intervento americano (nonché francese e britannico) in Siria sottolineando che finora i piani bellici statunitensi nella regione non hanno mai sortito gli effetti desiderati. Lo ha affermato perfino il presidente siriano Bashar al-Assad in una intervista per la stampa russa, e bisogna ammettere che perfino i più grandi detrattori del dittatore di Damasco in questo caso faticano a negare una certa fondatezza al suo argomento.
È opinione comune tra gli analisti che un intervento militare internazionale in Siria destabilizzerebbe il vicino Libano. Ma viene subito da obiettare che il Libano è già destabilizzato. Il devastante scontro tra Assad e i suoi oppositori ha abbracciato il Paese dei cedri da oltre un anno. Da quando, era il maggio 2012, si registrarono i primi episodi di violenza a Beirut, ma soprattutto a Tripoli, roccaforte sunnita nel Libano del nord, quindi confessionalmente vicina alle posizioni anti-Assad.
Washington e Londra sembrano determinati ad attuare in tempi brevi azioni militari contro il regime di Bashar Assad anche in assenza di prove documentate dagli esperti dell’Onu presenti a Damasco circa l’impiego su vasta scala di armi chimiche da parte delle forze lealiste siriane. Più che sui responsi dei team del Palazzo di Vetro gli anglo-americani sembrano affidarsi ai report dell’intelligence, in stretto contatto con i servizi d’informazione israeliani e che hanno già indotto l’Amministrazione Obama ad accusare Damasco.
Dopo tre anni di silenzi, di accuse reciproche, nonché di una nuova sanguinosa guerra a Gaza risolta attraverso la mediazione egiziana, Tel Aviv e Ramallah ritornano a dialogare. La cosiddetta shuttle diplomacy di kissengeriana memoria, rispolverata nell’occasione da John Kerry, sembra aver prodotto un certo barlume di speranza nella storica disputa che, in caso di buon esito, rappresenterebbe il più grande successo di qualsiasi amministrazione Usa: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
Sono passati quasi 4 anni esatti dall’1 agosto 2009, qundo un uomo si presentò al Bar No’ar, un locale nel centro di Tel Aviv frequentato soprattutto da giovani omosessuali, e cominciò a sparare sulla folla. 2 morti, molti feriti e un paese sotto shock. Israele, abituata a subire attentati da sempre, si ritrovò, forse per la prima volta, con un atto terroristico di matrice totalmente interna. Ma non fu solo l’aggressione in sé; ciò che accadde dopo fu quasi altrettanto grave.
L’attentato del 9 luglio a Bir el-Abed, quartiere della periferia sud di Beirut, ha il sapore di una provocazione, se non di una schietta dichiarazione di guerra. La zona è abitata da una comunità quasi a prevalenza sciita, quindi vicina a Hezbollah, quindi ancora sostenitrice del presidente Assad nella guerra civile in Siria. Fare esplodere un’autobomba tra quei caseggiati, che sette anni fa sono stati già bersaglio dell’aviazione israeliana, durante la “guerra dei 33 giorni”, significa colpire, o tentare di colpire il Partito di Dio.
La zona cuscinetto a terra di nessuno, dunque di tutti: la destituzione del presidente egiziano Mohamed Morsi sta accelerando il peggioramento delle condizioni di sicurezza nel Sinai, da mesi avvitatosi in un’escalation di violenza. Se l’intero Egitto pare essere entrato in una fase cupa e confusa – nella quale gli stessi attori politici e religiosi sembrano incapaci di soppesare le conseguenze profonde delle proprie azioni – esistono almeno tre ragioni di ancora maggiore inquietudine per la penisola.
Ritiro dalla Siria dei "combattenti iraniani", oltre che delle milizie sciite libanesi di Hezbollah: è quanto hanno chiesto il 22 maggio scorso da Amman i ministri degli Esteri del gruppo “Amici della Siria”. È la prima volta che i paesi occidentali accusano Teheran di un intervento diretto nel conflitto, anche se più volte si è parlato della presenza di “consiglieri” militari della Repubblica islamica al fianco delle truppe del presidente Bashar al Assad.