Dopo tre anni di silenzi, di accuse reciproche, nonché di una nuova sanguinosa guerra a Gaza risolta attraverso la mediazione egiziana, Tel Aviv e Ramallah ritornano a dialogare. La cosiddetta shuttle diplomacy di kissengeriana memoria, rispolverata nell’occasione da John Kerry, sembra aver prodotto un certo barlume di speranza nella storica disputa che, in caso di buon esito, rappresenterebbe il più grande successo di qualsiasi amministrazione Usa: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
Sono passati quasi 4 anni esatti dall’1 agosto 2009, qundo un uomo si presentò al Bar No’ar, un locale nel centro di Tel Aviv frequentato soprattutto da giovani omosessuali, e cominciò a sparare sulla folla. 2 morti, molti feriti e un paese sotto shock. Israele, abituata a subire attentati da sempre, si ritrovò, forse per la prima volta, con un atto terroristico di matrice totalmente interna. Ma non fu solo l’aggressione in sé; ciò che accadde dopo fu quasi altrettanto grave.
L’attentato del 9 luglio a Bir el-Abed, quartiere della periferia sud di Beirut, ha il sapore di una provocazione, se non di una schietta dichiarazione di guerra. La zona è abitata da una comunità quasi a prevalenza sciita, quindi vicina a Hezbollah, quindi ancora sostenitrice del presidente Assad nella guerra civile in Siria. Fare esplodere un’autobomba tra quei caseggiati, che sette anni fa sono stati già bersaglio dell’aviazione israeliana, durante la “guerra dei 33 giorni”, significa colpire, o tentare di colpire il Partito di Dio.
La zona cuscinetto a terra di nessuno, dunque di tutti: la destituzione del presidente egiziano Mohamed Morsi sta accelerando il peggioramento delle condizioni di sicurezza nel Sinai, da mesi avvitatosi in un’escalation di violenza. Se l’intero Egitto pare essere entrato in una fase cupa e confusa – nella quale gli stessi attori politici e religiosi sembrano incapaci di soppesare le conseguenze profonde delle proprie azioni – esistono almeno tre ragioni di ancora maggiore inquietudine per la penisola.
Ritiro dalla Siria dei "combattenti iraniani", oltre che delle milizie sciite libanesi di Hezbollah: è quanto hanno chiesto il 22 maggio scorso da Amman i ministri degli Esteri del gruppo “Amici della Siria”. È la prima volta che i paesi occidentali accusano Teheran di un intervento diretto nel conflitto, anche se più volte si è parlato della presenza di “consiglieri” militari della Repubblica islamica al fianco delle truppe del presidente Bashar al Assad.
Bitakon è il mantra di Israele. Significa sicurezza e più di una volta è stato usato pretestuosamente: per vincere un’elezione o per evitare il dialogo con l’avversario. Il premier palestinese uscente Salam Fayyad, per esempio, sarebbe stato un ideale interlocutore di pace ma per i governi di Bibi Netanyahu ha continuato a essere un pericoloso sovversivo. Gli stessi esecutivi che delle Primavere arabe hanno solo letto i pericoli e mai le eventuali opportunità.
Nel 2009 fu la parola speranza a declinare le tappe del viaggio di Barack Obama in Medio Oriente, il primo come presidente degli Stati Uniti. La sua elezione aveva suscitato grande curiosità nel mondo islamico e sull’onda di quell’entusiasmo la Casa Bianca si prefiggeva di trasformare il temporaneo reset emotivo in qualcosa di più duraturo. «Il mio lavoro con i paesi musulmani è spiegare che gli americani non sono loro nemici» dichiarò il neo-presidente in un’intervista ad Al Arabiya pochi giorni dopo la sua partenza.
L’ultima volta che Obama si è interessato veramente della situazione israelo-palestinese è stato probabilmente verso il 2008, quando da senatore dell’Illinois si è recato in Terra Santa e ha visitato il Muro del Pianto. Era parte della campagna per le elezioni presidenziali, in un tour promozionale che includeva delle “cover” delle gesta politiche di grandi presidenti del passato – e non è mancato un discorso a Berlino, a evocare lo storico «Butta giù questo muro» rivolto da Ronald Reagan a Mikhail Gorbachev nel 1987.
La tappa al Cairo del recente tour in Medio Oriente del nuovo segretario di stato americano, John Kerry, ha trovato eco sui media globali principalmente per le proteste che ha suscitato presso la variegata galassia delle opposizioni egiziane, tanto sul versante delle piazze, da cui ha presto fatto il giro del mondo la caricatura del neosegretario raffigurato con un’improbabile barba islamica, quanto su quello più politico, con il significativo rifiuto a una proposta d’incontro espresso dai due principali leader del Fronte di Salvezza Nazionale, il
Il conflitto civile in Siria ha ormai assunto dimensioni più che preoccupanti, con oltre 70.000 vittime nei due anni di combattimenti intercorsi – la rivolta ha avuto inizio nel marzo del 2011 – e un numero di rifugiati che è stimato in almeno dieci volte tanto (secondo le stime ufficiali dell’Unhcr). Di fronte a quella che è ormai ritenuta a livello globale una vera e propria emergenza non solo di sicurezza, ma umanitaria, le risposte dei maggiori attori internazionali risultano del tutto inadeguate ad affrontare una crisi di tale portata.
Il Medio Oriente che Obama visiterà alla fine di marzo andando per la prima volta da presidente in Israele, in Palestina e in Giordania, è diverso da quello da lui affrontato con il suo programmatico discorso sull’Islam e sul conflitto palestinese all’Università del Cairo il 4 giugno 2009. La mano che aveva teso al mondo islamico non è stata accettata mentre l’anti americanismo è cresciuto specie in Egitto dove Obama aveva sostenuto la rivolta contro il regime di Mubarak.