Il primo mandato di Barack Obama, come hanno osservato molti commentatori, non si è distinto per un chiaro impegno in Medio Oriente. Da un lato, l’amministrazione americana negli ultimi anni si è concentrata sul disimpegno – in parte per compensare l’eccesso di zelo e attivismo nella regione dell’amministrazione Bush.
Dopo l’enfasi del discorso d’insediamento e il travagliato iter di ratifica di alcune posizioni-chiave dell’amministrazione, c’era considerevole attesa, dentro e fuori gli Stati Uniti, per il discorso sullo stato dell’Unione in cui Barack Obama avrebbe, di fatto, tracciato le linee-guida del suo secondo mandato presidenziale . Quello che ci si attendeva era, fra l’altro, un chiarimento sulle priorità della presidenza “2.0” in ambito internazionale, rimaste in ombra sia nel corso della campagna elettorale, sia nelle prime settimane di vita del nuovo esecutivo.
Secondo i bookmaker il 2013 sarà l’anno della svolta tra Iran e Israele. Lo strike contro le installazioni atomiche potrebbe materializzarsi a breve. «Entro la prossima primavera, al massimo la prossima estate» ha detto a settembre nel suo discorso all’Assemblea Generale dell’Onu Benjamin Netanyahu – se avanza agli attuali livelli di arricchimento (di uranio) Teheran sarà a pochi mesi, forse, a poche settimane, dall’ottenere il quantitativo di uranio necessario per la sua prima bomba».
I sondaggisti non hanno dubbi: per il premier uscente Benjamin Netanyahu e per la sua lista Likud-Beitenu e l'intero blocco politico della destra nazionalista e confessionale, il voto sarà una passeggiata. Nessuno potrà sbarrare la strada a re Bibi – così la stampa chiama il primo ministro – nella sua corsa al terzo mandato.
In una situazione di stallo permanente, meglio mostrare che qualcosa – comunque – si fa. È una lettura pessimista, quella della politica del Palazzo palestinese, o per meglio dire, dei Palazzi della politica palestinesi. Le élite al potere, in Cisgiordania e a Gaza, continuano gli affari correnti, l’ordinaria amministrazione di Ramallah e Gaza City, mentre la riconciliazione tra Fatah e Hamas è diventata, per entrambi i contendenti, uno specifico settore della politica in cui impegnare uomini, risorse e tempo.
Una cosa è scontata dal giorno in cui Bibi Netanyahu ha convocato le elezioni anticipate: alla fine le vincerà lui. Resta solo da vedere chi sarà il suo vero avversario, se conquisterà i voti sufficienti per emergere: chi si proporrà come vera alternativa, chi tenterà di dare corpo a un’opposizione capace di costruire in un tempo moderatamente breve una proposta diversa di Israele, nel tempo moderatamente breve di una legislatura: in Israele non arrivano mai alla scadenza naturale di cinque anni.
Né compiute né tradite: le “Primavere arabe” sono un’opera in progresso. Quanto più l’“innamoramento” lascia il posto alle realizzazioni tanto più si manifestano le asperità della transizione e le inevitabili differenze fra paese e paese. Per molti aspetti si è trattato comunque di una svolta irreversibile. I rapporti di forza nei vari livelli della sovranità e della geopolitica non sono e non saranno più quelli ante-2011 anche là dove le vecchie forme di potere resistono a una contestazione che appartiene più o meno allo stesso fenomeno che ha sconvolto il Nord Africa.
Dopo il recente decreto che ha posto le decisioni del presidente al di sopra di ogni esame giudiziario e la nuova Costituzione approvata dalla Assemblea Costituente che prevede la sharia come fonte giuridica principale, il presidente egiziano Morsi è nella bufera. Riserve sull’atteggiamento assunto dal presidente vengono sollevate dai manifestanti negli scontri in piazza e dai suoi consiglieri personali che rimettono in massa l’incarico.
A otto giorni dal lancio dell’operazione Colonna di Nuvole nella Striscia di Gaza, la firma per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, raggiunta grazie alla felice congiunzione tra la mediazione politica dell’Egitto e la pressione diplomatica degli Stati Uniti, è stata salutata dalla comunità internazionale con un sospiro di sollievo generalizzato.
C’è una parola che è tornata in auge nella retorica di Hamas, durante l’ultima guerra di Gaza, ed è muqawwama. Resistenza, muqawwama appunto. Una parola – a dire il vero – mai espunta dal linguaggio usato dai leader e dai militanti di Hamas in tutta la sua esistenza, che nel prossimo dicembre celebra il quarto di secolo. Muqawwama, anzi, è parte costitutiva di un movimento, quello islamista palestinese, che ha inserito il termine nello stesso acronimo che lo definisce: Hamas, movimento di resistenza islamico.
Per annunciare agli israeliani la fine delle operazioni e la “missione compiuta”, Bibi Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barak e quello degli Esteri Avigdor Lieberman si erano presentati in diretta tv. Non erano esattamente gli sguardi e i toni della vittoria, quelli esibiti dal vertice politico del Paese. Non è chiaro se nell’ultima crisi di Gaza le forze armate siano riuscite a raggiungere quel cercavano per annichilire la capacità del nemico di lanciare razzi.
Tawadros II (Teodosio II) è ufficialmente il 128esimo “Papa di Alessandria d’Egitto e Patriarca della Predicazione di San Marco e di tutta l’Africa”. È con questo titolo che, domenica scorsa, l’ex vescovo di Beheira è stato incoronato pontefice della Chiesa copta ortodossa. La cerimonia d’intronizzazione conclude il capitolo di vuoto di potere al quale è stata sottoposta la più importante comunità cristiana in Egitto. La Chiesa copta ortodossa si distingue da quella cattolica che fa riferimento a Roma e da quella etiope altrettanto autocefala.