Donald Trump ci sta preparando una nuova grande sorpresa d’estate. No, non l’imminente vertice della Nato nel quale l’Alleanza Atlantica farà la fine del G7: cioè diventerà un altro campo di battaglia fra l’America e l’Occidente. Non lo sarà nemmeno il successivo incontro a Helsinki fra Trump e Vladimir Putin: il primo vertice fra due grandi potenze bianche, cristiane e populiste, contro gli smidollati sistemi liberal-democratici. La sorpresa sarà ancora più impensabile: un nuovo piano di pace fra israeliani e palestinesi!
A meno di una settimana dal 12 maggio, data entro la quale l’amministrazione Usa è tenuta a rinnovare la sospensione delle sanzioni verso Teheran, aumentano le incertezze sul futuro dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) e si inaspriscono i toni delle dichiarazioni dei principali protagonisti.
L’area del Mediterraneo allargato continua a essere caratterizzata da numerose crisi che, lungi dal risolversi, sembrano invece diventare sempre più profonde, coinvolgendo un crescente numero di attori. I focolai di conflitto sono inoltre circondati da contesti e aree in via di transizione che, in cerca di un nuovo equilibrio, difficilmente potranno dare un contributo alla stabilizzazione dell’area.
Possiamo dire che la “Marcia del Grande Ritorno” a Gaza, sia una cinica forma di propaganda di Hamas: un tentativo di dare un senso alla sua esistenza. Possiamo anche affermare che il solo metodo di governo del movimento islamico, l’ala palestinese della Fratellanza, sia la guerra permanente a Israele: cioè il suicidio del popolo palestinese. E dobbiamo ricordare che il poco che passa dalle maglie della gabbia israeliana su Gaza sia usato da Hamas per costruire tunnel sotto Israele e non case.
Definirlo “storico” sarebbe ardito, così come chiamarlo “rivoluzionario” potrebbe dare adito a una rappresentazione artificiosa e troppo carica di aspettative. Tuttavia, quanto sta avvenendo in quello spicchio di Mediterraneo orientale rappresenta davvero un orizzonte geopolitico e strategico rilevante e innovativo.
Tra Israele e Arabia Saudita è nata una vera alleanza o ci troviamo di fronte a una convergenza tattica?
I riflettori sono ancora puntati sulla Siria. Negli ultimi giorni Assad ha intensificato i bombardamenti sulla Ghouta orientale, area alla periferia est di Damasco – nel sud del paese – controllata dai ribelli. Sotto assedio ci sono 400.000 civili. Oltre trecento le vittime solo negli ultimi tre giorni.
Per Israele sono giorni critici. Oltre alle difficoltà interne, con il primo ministro Benjamin Netanyahu che rischia l’incriminazione per corruzione, anche il fronte esterno si è fatto più caldo: soprattutto quello siriano.
Il conflitto tra Iran e Israele è una parte del più ampio mosaico di conflitti per procura di cui la Siria è diventata teatro.
Chi è vicino a Hezbollah, sostiene che Hassan Nasrallah, il leader supremo del movimento sciita libanese, stia pensando che una nuova guerra con Israele sarebbe la soluzione del principale problema di tutto il mondo islamico nel Levante: la divisione fra sunniti e sciiti. Di fronte alla “santità” di un conflitto contro gli ebrei e al permanere della “grande minaccia sionista”, il regime di Bashar al-Assad e le opposizioni islamiste che stanno riguadagnando terreno, girerebbero le loro armi verso Sud.
Da Richard Nixon in poi, cinque presidenti avevano ufficialmente visitato Gerusalemme prima di lui e incontrato primi ministri, senza però riconoscere la città come capitale di Israele. Quella che Donald Trump ha definito “ipocrisia”, ordinando il trasloco dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, si chiama invece diplomazia. Lo sa anche lui ma ignorarlo temo sia il fulcro ideologico della sua opera distruttrice.