Nell’autunno del 2014, quindi due anni fa, lo Yemen entrava nella crisi politica che avrebbe generato il conflitto più trascurato e insieme incompreso del Medio Oriente.
Se si osserva la sequenza di attentati avvenuti a sud del Sahara tra fine 2015 e inizio 2016, i più esposti sembrano essere i paesi a guida democratica. Nonostante i messaggi di resa diffusi via web dal leader Abubakar Shekau, la Nigeria nordorientale è bersagliata quotidianamente da attacchi di Boko Haram. Il Mali ha subito a novembre un attentato in un albergo nel cuore della capitale Bamako.
Come spesso è accaduto nella storia recente le sorti dei palestinesi e di Gaza si legano a doppio filo con quelle d’Egitto. Anche nel caso dell’operazione “Soglia di protezione”, il Cairo è uno spettatore interessato a osservare gli effetti del conflitto israelo-palestinese e a tentare di orientarne l’andamento e gli sviluppi.
La crisi in Repubblica Centrafricana, un paese di medie dimensioni, popolato da meno di cinque milioni di abitanti, di cui due terzi residenti in area rurale, avrebbe potuto continuare a essere considerata un fenomeno periferico, non fosse stato per l’attenzione di Parigi e di Washington, che, invocandola come una delle priorità della sicurezza internazionale, l’hanno riportata all’attenzione di vari consessi multilaterali – dall’Assemblea generale dell’Onu al recente Forum Francia-Africa a Parigi.
L’attentato di Bengasi dell’11 settembre 2012 che ha comportato l’uccisione dell’ambasciatore statunitense Christopher Stevens ha riportato l’attenzione internazionale sul radicalismo islamico e sulle formazioni terroristiche a esso ispirate. Lo jihadismo armato non è morto con Osama bin Laden e ha battuto un colpo contro la potenza nemica per eccellenza, quegli Stati Uniti che, per mano dello stesso ambasciatore Stevens, si erano prodigati nel sostenere le milizie che hanno combattuto contro il regime di Gheddafi.