Nel giugno 2014 il numero di foreign fighters, intesi come giovani combattenti stranieri convertiti all’islam radicale e partiti da varie realtà internazionali per combattere nei teatri iracheno e siriano al fianco di organizzazioni jihadiste come Jabhat al-Nusra e Daesh, era stimato a circa 12.000 unità provenienti da 81 diversi paesi. Nel 2015 il numero è più che raddoppiato, raggiungendo circa i 30.000 combattenti provenienti da almeno 86 nazioni.
Nel corso dell’ultimo lustro, nella regione del Mediterraneo le speranze accese dalla cosiddetta Primavera araba hanno lasciato spazio a scenari marcati da numerosi elementi di preoccupazione e di allarme.
I dissidi interni alla galassia talebana hanno compromesso l'immagine di coesione costruita intorno alla figura del mullah Omar, ma per ora non sembrano ripercuotersi sulla struttura organizzativa del gruppo né sulle sue capacità militari. Vero banco di prova per il consolidamento della leadership del successore mullah Mansour diventa l'apertura al negoziato di pace con cui potrebbe alienarsi i comandanti militari, favorendo il nuovo attore del jihad afghano, Abu Bakr al-Baghdadi.
Nel blog boredjihadi (il jihadista annoiato), il giornalista norvegese Thomas Hegghammer ha raccolto immagini, articoli, comunicati ufficiali, tweet e video dei miliziani di diversi gruppi jihadisti. Il sito vuole così dare uno spaccato della loro vita quotidiana e mettere a confronto usi e abitudini dei miliziani provenienti da diverse parti del mondo. Le testimonianze raccolte mostrano in particolare momenti di svago come pranzi, canti e preghiere. (...)
Abstract
Le operazioni “Balkan connection” e “Martese”, rispettivamente del marzo e luglio 2015, hanno dimostrato come in Italia siano presenti piccole cellule che mantengono contatti con reti jihadiste in Albania e attive nel reclutamento e nella propaganda filo-Isis.
Nonostante i successi dell’offensiva militare governativa dei primi mesi dell’anno, Boko Haram (BH) resta il maggiore fattore d’instabilità e d’insicurezza del nord della Nigeria. La struttura decentralizzata e la composizione eterogenea rendono il gruppo estremamente flessibile e quindi capace di reagire a contesti diversi. Anche negli ultimi mesi BH si è adattato velocemente al “cambio di passo” del governo, tanto da intensificare il numero dei suoi attacchi.
Nella settimana del secondo anniversario della destituzione del presidente legittimo Mohammed Morsi (29 giugno-3 luglio 2013), non sembra conoscere sosta la spirale di violenza che minaccia in maniera costante l’Egitto post-rivoluzionario.
Fino a tre anni fa gli analisti e gli studiosi non avevano dubbi: le rivolte in Tunisia, Egitto, Libia, Siria e altri paesi, assurte alle cronache come le cosiddette “Primavere arabe”, erano viste come il vero punto di rottura che avrebbe ridisegnato gli equilibri regionali in maniera radicale. E, in effetti, la questione che più tiene banco oggi nel Vicino Oriente può anche essere vista come una conseguenza – più o meno diretta – di quelle rivolte.
Se è vero che l’irruzione del Califfato in Medio Oriente ha alterato sensibilmente la già fragile e tormentata geografia politica, sociale ed economica dell’area, non è meno vero che gli sviluppi della trattativa 5+1-Iran sul programma nucleare di Teheran vi hanno aggiunto derive suscettibili di consegnare a un futuro denso di incognite i suoi equilibri interni e quelli fra i principali players internazionali che vi gravitano.
Apparentemente, è il più ignorato degli attesi protagonisti del caos mediorientale. I qaidisti di Jabhat al-Nusra non lo menzionano mai; nei proclami dello Stato Islamico è molto più citata la conquista di Roma che la “liberazione” di Gerusalemme; Bashar al-Assad ha ormai altri problemi, ed è scomparso dalla retorica e dalla propaganda arabe che per oltre mezzo secolo lo avevano usato per raccogliere facili consensi popolari.
Le tensioni emerse negli ultimi mesi tra Hamas e i gruppi locali salafiti hanno alimentato nuove speculazioni circa la possibile penetrazione politica, ideologica e militare dello Stato Islamico (IS) nella Striscia di Gaza.
È ancora presto per tracciare un bilancio storiografico credibile e un’analisi teorica seria delle cosiddette “primavere arabe”. Ma certamente, quando lo si farà, uno dei temi centrali da trattare sarà quello dei rapporti tra le rivolte del 2010-2012 e il contesto internazionale.
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