Lo scorso 19 gennaio, su spinta della cancelliera tedesca Angela Merkel, si è tenuta a Berlino l’ennesima conferenza sulla Libia con la partecipazione di Francia, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Algeria, Egitto, Repubblica del Congo, Turchia, Emirati Arabi Uniti e anche Cina e Russia, oltre ai rappresentanti di Unione Europea, Lega Araba, Lega Africana e Nazioni Unite. Diplomaticamente, è stato un successo per la Germania che, tuttavia, non si è riflettuto in alcun passo in avanti sul campo, anzi.
Che la crisi in Libia abbia un valore importante per l’Egitto è cosa risaputa ai più, così come è altrettanto noto che il paese giochi un ruolo rilevante nelle dinamiche del conflitto. Quel che però sfugge è il perché di questa rilevanza e, soprattutto, quale è il quadro congiunturale che ha portato Il Cairo ad impegnarsi così attivamente in Libia.
Per le monarchie del Golfo, la Libia è ancora il teatro di una competizione geopolitica a somma zero, quindi senza compromessi. Qualora ve ne fosse stato bisogno, la Conferenza di Berlino – e i suoi impegni già disattesi – lo ha messo vistosamente in palcoscenico.
A Berlino, gli Emirati Arabi Uniti (EAU), protagonisti “dal cielo” dell’offensiva su Tripoli del generale Khalifa Haftar, c’erano. Tra i non invitati, l’Arabia Saudita e, soprattutto, il Qatar: una perfetta sintesi degli attuali equilibri diplomatico-militari in Libia.
Il caos in Libia, la guerra tra milizie, leader e potenze straniere non si è fermata: nel disinteresse generale, anche dopo la conferenza di Berlino lo scontro sul campo divampa. E mentre la competizione tra il governo di Tripoli e l’esercito del generale Haftar continua senza esclusione di colpi, nel teatro nordafricano l’Italia e l’Europa colpite dall’epidemia rischiano l’irrilevanza.
Il 4 aprile sarà trascorso un anno esatto dall’attacco delle truppe dell’Esercito Nazionale Libico (ENL) guidato dall’ex generale di Muammar Gheddafi, Khalifa Haftar, contro la città di Tripoli. Un anno di assedio, di bombardamenti sulla popolazione civile e sulle infrastrutture della città, di violenze che hanno lasciato il segno sulla popolazione, radicalizzando posizioni politiche e incrinando i legami sociali.
Le dimissioni di Ghassan Salamé da Inviato Speciale delle Nazioni Unite per la Libia sono state un segnale, l’ennesimo, del fatto che le fragili speranze riposte nella Conferenza di Berlino si stanno rapidamente sgretolando. Un segnale d’allarme per il sistema ONU, che in Medio Oriente nell’ultimo decennio ha collezionato una serie ininterrotta di fallimenti, dallo Yemen alla Siria e, ovviamente, in Libia.
Dopo due anni di tentativi Ghassan Salamé getta la spugna e si dimette da inviato Onu per la Libia. E nel suo addio, ufficialmente per motivi di salute, cita “mesi di stress insostenibile”. Intanto sul terreno il conflitto è in stallo e crescono i timori che le dimissioni dell’inviato Onu possano far nuovamente precipitare la situazione.
Iniziata il 4 aprile 2019, su iniziativa del maresciallo di campo Khalifa Haftar che ne ha fatto una crociata anti-islamista, la guerra in Libia è passata attraverso deserti e campi agricoli, raggiungendo raramente le città – come Tarhuna e Gharyan – e infine fermando il suo corso davanti alle porte della capitale Tripoli.
La missione Sophia terminerà il 20 marzo e sarà sostituita da una nuova operazione europea con il compito di controllare che l’embargo sulle armi in Libia venga rispettato. Ma quali saranno le regole di ingaggio e cosa cambia nel Mediterraneo?
In Libia la Conferenza di Berlino non ha dato i frutti sperati.
L’Onu approva una risoluzione sul cessate-il-fuoco, Haftar blocca i voli delle Nazioni Unite mentre Di Maio fa la spola tra Tripoli e Bengasi. E l’Italia finisce sotto attacco per il rinnovo del memorandum con la Libia.
Nei giorni in cui si celebravano i risultati – poi rivelatisi inconcludenti – della Conferenza di Berlino sulla Libia, sui social media circolavano notizie di un possibile ridimensionamento della missione egiziana in supporto del generale Khalifa Haftar, dominus indiscusso del cosiddetto governo di Bengasi-Tobruk.