Il rapimento lampo del premier libico Alì Zeidan da parte di gruppi di miliziani tripolini testimonia purtroppo come la Libia sia velocemente precipitata verso il fallimento. Solo due giorni fa Zeidan aveva espresso in una lunga intervista a BBC la sua preoccupazione per la minaccia che le milizie rappresentavano alla stabilità del paese.
L’attuale confronto militare in Libia ha cause profonde di natura interna, regionale e internazionale. L’attacco alla capitale il 4 aprile da parte del Libyan National Army (LNA) di Khalifa Haftar ha reso evidente il fallimento della mediazione internazionale. Difficile pensare che i tempi per un ritorno al tavolo negoziale siano maturi. Le parti in conflitto restano infatti convinte di poter ottenere la vittoria militare. In particolare, le recenti azioni di Haftar sembrano prospettare recrudescenze e danni materiali in pericolosa crescita.
Quando sembrava delinearsi un passaggio importante nella roadmap libica voluta dalle Nazioni Unite, ossia la convocazione per il 12-14 di aprile della Conferenza Nazionale (Al Multaqa Al Watani)[1], un incontro definito di nation building che avrebbe dovuto costituire un passaggio importante nel processo di costruzione di fiducia reciproca tra gli attori libici più influenti, Khalifa Haftar ha deciso di compiere un’azione militare che aveva la finalità di prendere possesso della capitale Tripoli.
Fatico a dare ragione all’attuale governo italiano su qualsiasi cosa si occupi. Ma fatico anche a dargli torto sulla Libia. Presidenza del Consiglio, Farnesina, ambasciata a Tripoli, servizi: non vedo incoerenza nei loro comportamenti né una pericolosa concitazione di fronte agli ultimi avvenimenti di un’agenda fondamentale per noi.
La Libia sembra sprofondare nuovamente nel conflitto civile: da oltre una settimana, ormai, le forze agli ordini del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, hanno lanciato un’offensiva militare per prendere possesso della capitale Tripoli, controllata dalle milizie del Governo di Accordo Nazionale guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dall’ONU.
Il 20 marzo scorso lo Special Envoy di UNSMIL Ghassan Salamé ha annunciato che la Conferenza Nazionale sulla Libia si terrà dal 14 al 16 aprile nella cittadina di Ghadames. A raggiungere l'oasi nel Fezzan, monumento nazionale, dovrebbero essere 120-150 delegati in rappresentanza di ogni frangia della società libica per far emergere i reali bisogni del paese.
È probabile che alla fine Khalifa Haftar si prenderà la Libia, ma il suo obiettivo è entrare nella capitale come salvatore della patria contando sul supporto di una popolazione stanca del caos e su capi miliziani con la pancia troppo piena per voler combattere.
Negli ultimi mesi sono stati compiuti alcuni importanti passi nel tentativo di dipanare la matassa della crisi libica. Nello sforzo di accompagnare il paese verso le elezioni, inizialmente previste per il 10 dicembre 2018, il governo italiano ha organizzato una nuova conferenza internazionale che si è tenuta a Palermo il 12 e 13 novembre.
La conferenza di Palermo di metà novembre sembrava aver riportato le Nazioni unite al centro della crisi libica. Il suo merito più grande è stato quello di fissare una periodizzazione più chiara circa le varie scadenze elettorali. A qualche mese di distanza si può dire che a quella nuova fase promettente sia seguita l’ennesima disillusione.
Sì. Khalifa Belqasim Haftar, militare di alto rango con profonde ambizioni politiche, rappresenta sotto molti aspetti la Libia e la sua natura controversa. Cresciuto sotto l’ala protettrice di Gheddafi come militare di professione, ne perse il favore durante la guerra contro il Ciad. Imprigionato, fu rilasciato grazie all’intervento americano, vivendo negli USA per decenni ed è tornato alla ribalta nel 2011, durante la rivoluzione libica che vide il rovesciamento del rais e di un sistema che aveva resistito per più di 40 anni.
L’idea di una conferenza internazionale sulla Libia organizzata dall’Italia è nata in occasione della visita del premier Giuseppe Conte a Washington lo scorso luglio e, nell’immediato, ha trovato l’appoggio del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, favorevole a un rinnovato impegno del nostro Paese nel teatro di crisi del paese nordafricano. Al summit tenutosi a Palermo il 12 e 13 novembre, tuttavia Trump non ha preso parte, così come diversi dei capi di stato – da Putin a Macron – ai quali inizialmente si era pensato.