Lo scorso 17 giugno, alle 16.50 ora del Cairo, arriva inaspettata una notizia che ha stravolto le aperture di media, quotidiani e siti online di tutto il mondo. È morto Mohammed Morsi. Il primo presidente della storia d’Egitto democraticamente eletto nel giugno 2012 con il 51,7% del consensi contro il candidato del recente passato mubarakiano (Ahmed Shafiq, che raccolse il 48% dei voti).
Gli attacchi di giovedì 13 giugno ai danni di due petroliere in transito nel Golfo dell’Oman hanno riacceso i timori di un’escalation nel Golfo, e soprattutto di un confronto diretto tra Stati Uniti e Iran in un periodo particolarmente delicato delle loro relazioni. In mancanza di accertamenti ufficiali sulle responsabilità, i Paesi coinvolti si scambiano in queste ore accuse e denunce.
In cima a una montagna a meno di quaranta chilometri da San’a, una scarica di mitragliatrice interrompe la nostra chiacchierata col generale Ahmed Hassan Joubran: sui sessant’anni, capelli corti, baffetti curati, è lui l’uomo che ha fatto avanzare l’esercito yemenita attraverso queste rocce impervie sotto il fuoco di cecchini e missili anticarro.
L’Algeria sta affrontando la più grave crisi istituzionale dalla fine della sanguinosa guerra civile combattuta negli anni Novanta tra lo stato e organizzazioni terroristiche e di guerriglia di stampo jihadista, che provocò la morte di almeno 150.000 persone.
Negli ultimi mesi il panorama politico interno in Turchia è stato dominato dal voto per le amministrative che si è svolto a fine marzo sullo sfondo di un contesto economico in forte deterioramento. L’aspetto di novità delle elezioni ha riguardato la perdita delle grandi città da parte del partito del presidente Recep Tayyip Erdoğan, che nonostante ciò si è riconfermato come prima forza politica del paese con circa il 45% dei consensi.
Le elezioni nazionali del 12 maggio 2018, le prime dopo la sconfitta dello Stato Islamico (IS), hanno segnato un momento di grande importanza per l’Iraq, una sorta di spartiacque che ha chiuso una delle fasi più nere della storia del paese e ne ha aperta una nuova, segnata dalla voglia di riscatto e dal desiderio di ripartire.
Quando sembrava delinearsi un passaggio importante nella roadmap libica voluta dalle Nazioni Unite, ossia la convocazione per il 12-14 di aprile della Conferenza Nazionale (Al Multaqa Al Watani)[1], un incontro definito di nation building che avrebbe dovuto costituire un passaggio importante nel processo di costruzione di fiducia reciproca tra gli attori libici più influenti, Khalifa Haftar ha deciso di compiere un’azione militare che aveva la finalità di prendere possesso della capitale Tripoli.
Nonostante le numerose accuse pendenti nelle diverse inchieste in cui è coinvolto, Benjamin Netanyahu è riuscito a vincere le elezioni anticipate del 9 aprile. La vittoria ha permesso al premier uscente di essere il più longevo leader israeliano al governo. Sul fronte regionale e internazionale, invece, non si registrano particolari mutamenti. In tale contesto, l’Iran continua a essere percepito come il principale tema di politica estera israeliana.
In continuità con il trend di repressione preventiva rilanciato con maggiore forza all’indomani delle elezioni presidenziali del 2018, il capo di stato Abdel Fattah al-Sisi ha segnato un nuovo punto nella propria agenda politica vincendo un contestato referendum costituzionale ad aprile. Un voto che ha segnato di fatto la fine di qualsiasi eredità rivoluzionaria e che rischia contestualmente di aprire una nuova stagione di restaurazione autoritaria.
Il dibattito politico interno al paese continua a essere monopolizzato dalle difficili sorti dell’accordo sul nucleare (Jcpoa, Joint Comprehensive Plan of Action), siglato da Iran e P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Germania, Regno Unito) nel luglio 2015 ed entrato in vigore nel gennaio 2016.
Lo scenario siriano ha visto alcuni importanti sviluppi durante i mesi di aprile e maggio, sia nell’andamento del conflitto – con la ripresa di operazioni militari su larga scala nell’area di Idlib – sia sul piano interno ai territori controllati dal regime di Bashar al-Assad, dove l’acuirsi delle sanzioni americane contro l’Iran e Damasco ha creato crescenti difficoltà per il governo siriano.
Il recente aumento delle tensioni tra Iran e Stati Uniti espone la regione – e il mondo – a un rischio concreto: quello dello scoppio di una nuova guerra nel Golfo. A partire da domenica 12 maggio, una serie di episodi ha infatti destato in molti la preoccupazione per una possibile escalation: prima il sabotaggio di quattro petroliere al largo di Fujairah, negli Emirati Arabi Uniti; poi un attacco con droni che ha colpito due pozzi petroliferi in Arabia Saudita.
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