Può sembrare paradossale, ma non è del tutto sbagliato affermare che il Messico, seconda economia dell’America Latina, ha iniziato a far parte del G20 ancora prima della sua nascita. Dal 2005 al 2008 il paese è stato infatti membro del gruppo de G5, le maggiori economie emergenti (con Brasile, Cina, Sudafrica e India) che erano invitate a partecipare alle riunioni del G8, formato dalle sette potenze economiche occidentali più la Russia.
Il Messico riparte da dove aveva lasciato. Agguati, attacchi, stragi. Tutto nel segno terrificante del 2020 chiusosi con 35.484 omicidi.
Se ne è discusso a lungo, sono volate parole grosse, Donald Trump ha fatto fuoco e fiamme, ma ad oggi, l’unico paese ad avere ratificato l’USMCA, che i messicani chiamano T-MEC, il “nuovo” NAFTA, è stato proprio il Messico: il paese che tutti supponevano avrebbe opposto più resistenza. A Washington, invece, il Congresso prende tempo: i democratici mettono pali tra le ruote. Per vederne appieno gli effetti, così, bisognerà aspettare.
A prima vista, al Messico non va così male. O meglio: tra le tenebre di un paese devastato dalla violenza e dalla corruzione, balugina una luce in fondo al tunnel. È ciò in cui tutti sperano: il governo di López Obrador ha appena sei mesi di vita e gode di vasta popolarità; e con la popolarità s’amplia il margine d’azione grazie anche a un capitale di fiducia derivante dalla situazione politica disastrosa che ha ereditato dei governi precedenti.
Andrés Manuel López Obrador, il neo presidente messicano, sarà l’uomo del 2019 in America Latina. Nessuno come lui genera enormi aspettative: tra i messicani, che l’hanno sommerso di voti; e nel mondo, dove ci si aspetta riporti il Messico al posto che gli compete ma stenta a mantenere nel consesso dei grandi paesi. Come sempre, e com’è ovvio, c’è chi ci crede e c’è chi dubita, ci sono gli entusiasti e i perplessi, i devoti e le Cassandre; tutti hanno le loro buone ragioni.
Andrés Manuel López Obrador, il neo presidente messicano, sarà l’uomo del 2019 in America Latina. Nessuno come lui genera enormi aspettative: tra i messicani, che l’hanno sommerso di voti; e nel mondo, dove ci si aspetta riporti il Messico dove deve stare ma stenta a rimanere: nel consesso dei grandi paesi. Come sempre, e com’è ovvio, c’è chi ci crede e c’è chi dubita, ci sono gli entusiasti e i perplessi, i devoti e le Cassandre; tutti hanno le loro buone ragioni.
Il 1° luglio i messicani si sono recati alle urne per eleggere il nuovo presidente degli Estados Unidos Mexicanos. Con più del 53% e circa il 30% di vantaggio sul secondo candidato, sarà Andrés Manuel López Obrador - chiamato frequentemente AMLO - a governare il paese dal 1° dicembre per sei anni.
Quasi trent’anni fa, alla caduta del Muro di Berlino, sembrava cominciare una nuova era. Un’era in cui i muri, tra stati e tra esseri umani, cominciavano a essere finalmente abbattuti. Invece, forse non è andata esattamente così. Se allora erano quindici le barriere costruite dai governi per dividere gli uomini (e tra di esse la più famosa era stata smantellata), oggi sono settanta. I termini della convivenza sul nostro pianeta sono cambiati, plasmati da una crescente e sempre più diffusa insicurezza.
Il Premio Nobel per la letteratura, il portoghese José Saramago, si chiedeva “come e perché gli Stati Uniti, un Paese grande in tutto, abbia avuto tante volte, presidenti tanto piccoli. Di essi, Gerorge Bush, è forse il più piccolo. Le sue espressioni verbali erano attratte dall'irresistibile tentazione del puro sproposito. Quest'uomo si è presentato all'umanità nella posa grottesca di un cowboy che avesse ereditato il mondo e lo confondesse con una mandria di buoi”.
I rapporti tra Stati Uniti e Messico sono al centro della campagna elettorale, soprattutto dal lato repubblicano, in relazione a una tematica prioritaria per i cittadini americani come è quella dell’immigrazione. In particolare, Trump ha promesso di costruire un muro al confine col Messico, pagato interamente da quest’ultimo. L’esito dell’incontro con il presidente messicano è però stato disastroso per Trump. Le discussioni “molto sostanziali, dirette e costruttive”, sono in realtà servite a mostrare tutta la sua debolezza in merito al punto centrale della campagna elettorale. (...)
Nel corso delle campagne elettorali, ancor più alla vigilia di cruciali appuntamenti come saranno le presidenziali del prossimo novembre per gli Stati Uniti, è buona norma per i governi stranieri evitare di ingerire in questioni afferenti il processo elettorale con posizioni o dichiarazioni che, direttamente o meno, potrebbero influenzare l’esito del voto. Questa buona norma, però, non sempre viene rispettata e pare esserlo stata ancora meno in relazione al duello tra Hillary Clinton e Donald Trump.