L’arresto da parte della Guardia presidenziale del capo dello Stato, Michel Kafando, e del premier, Isaac Zida, in Burkina Faso sembra aver interrotto la transizione democratica in atto nel paese, mettendo una seria ipoteca sul processo interno di democratizzazione.
Nel latente conflitto dell’Ucraina orientale si confrontano da un lato l’esercito ucraino del nuovo governo filo-occidentale guidato dal neo-eletto presidente Poroshenko - frutto della rivoluzione di Majdan e insediatosi in seguito alle elezioni dello scorso maggio - dall’altro i separatisti ucraini filo-russi della cosiddetta Repubblica Popolare di Donetsk.
Edoardo Greppi, professore di International Institutional Law e di Diritto internazionale umanitario e tutela dei diritti umani nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino analizza il ruolo che l'ONU dovrebbe ricoprire nello scenario che si sta delineando in Ucraina con l'invio di militari russi in Crimea.
Tornato alle urne per la sesta volta in tre anni, l’Egitto avrà tra pochi giorni una nuova Costituzione che sostituisce quella a forte impronta islamista approvata poco più di un anno fa dal deposto nonché legittimamente eletto presidente Mohammed Morsi. Ma più che sui 247 articoli messi a punto a dicembre da una Commissione di 50 membri, il referendum chiedeva l’approvazione del paese sull’operato del ministro della Difesa al-Sisi, architetto del golpe popolare dell’estate scorsa e della successiva messa al bando dei Fratelli musulmani.
Più poteri ai militari e una norma che impedisce ai partiti religiosi di presentarsi alle elezioni. La nuova Costituzione egiziana cerca di trovare un equilibrio tra i diversi poteri dello stato, attribuendo un ruolo istituzionale all’esercito e stabilendo la definitiva esclusione dei Fratelli musulmani dalla vita politica.
Il processo di transizione intrapreso all’indomani della destituzione di Morsi sembra, dal punto di vista della tutela dei diritti fondamentali, in stand-by. Sebbene il premier al-Beblawi, poco dopo l’assunzione dell’incarico, avesse incontrato il National Council for Human Rights e la Egyptian Union for Human Rights, le questioni discusse riguardavano l’economia e la promozione all’estero di un’immagine che rassicurasse i turisti, in modo da non bloccare una della principali fonti di introiti del paese.
Dovevano essere stati sconfitti dalla Fratellanza Islamica, la realtà è che non se ne sono mai andati. I militari sono rimasti anche in questi anni uno dei centri di potere in Egitto, ma hanno voluto recitare la parte degli arbitri imparziali che hanno a cuore soltanto l’interesse della nazione. Ora sono tornati a fare politica attiva, come succedeva prima dell’elezione di Morsi, ma questo non significa che l’Egitto sia tornato al passato.
Il fallimento dell’esperienza politica di Morsi affonda le proprie radici in una serie di fattori, difficilmente sottoponibili a qualche forma di gerarchia.
L’islamizzazione è fenomeno che attiene più alla sfera sociale di parte del paese che alla legislazione vera e propria (l’art 2. della Costituzione egiziana, che indica la sharia come fonte principale del diritto, è esattamente identico a quella della Costituzione mubarakiana).
Le prove d’Egitto (che se non risolte torneranno a essere piaghe).
La questione egiziana mette tutto il mondo di fronte ad alcune importanti prove dalla cui risposta dipenderà molto del nostro futuro, prima dell’Italia e poi dell’Europa.
La zona cuscinetto a terra di nessuno, dunque di tutti: la destituzione del presidente egiziano Mohamed Morsi sta accelerando il peggioramento delle condizioni di sicurezza nel Sinai, da mesi avvitatosi in un’escalation di violenza. Se l’intero Egitto pare essere entrato in una fase cupa e confusa – nella quale gli stessi attori politici e religiosi sembrano incapaci di soppesare le conseguenze profonde delle proprie azioni – esistono almeno tre ragioni di ancora maggiore inquietudine per la penisola.
«Speriamo che questo segni la fine del cosiddetto ‘Islam politico’», è il commento sugli eventi degli ultimi giorni in Egitto di un amico che vive al Cairo da molti anni e che, pur essendo un profondo conoscitore dell’Islam, ne ha sempre guardato con diffidenza le ambizioni politiche. Sono in molti a pensarlo, e ad auspicarlo.
C’è una battuta che circola in questi giorni nelle piazze ribelli d’Egitto. «Del primo presidente ci siamo liberati in diciassette giorni, del secondo in quattro, per il terzo basterà un tweet» scherzano i giovani protagonisti dello tzunami politico che loro chiamano rivoluzione contro i Fratelli Musulmani e molti, all’estero, colpo di stato militare.