Of the many formidable foreign policy questions facing Israel as it celebrates its 70th anniversary, the most auspicious is how the Jewish State should adapt to a multipolar world. The urgency to answer this question has accelerated in recent days. President Donald Trump’s decision to remove the US from the Iran deal – applauded by Israeli leadership – will, over time, force Israel to develop cooperative relationships with non-traditional partners in order to meet its regional security objectives.
Possiamo dire che la “Marcia del Grande Ritorno” a Gaza, sia una cinica forma di propaganda di Hamas: un tentativo di dare un senso alla sua esistenza. Possiamo anche affermare che il solo metodo di governo del movimento islamico, l’ala palestinese della Fratellanza, sia la guerra permanente a Israele: cioè il suicidio del popolo palestinese. E dobbiamo ricordare che il poco che passa dalle maglie della gabbia israeliana su Gaza sia usato da Hamas per costruire tunnel sotto Israele e non case.
In un curioso mondo nel quale il presidente degli Stati Uniti è un sostenitore della Russia di Putin, la Repubblica popolare cinese è il grande protettore della globalizzazione e i sauditi accusano un loro vicino di estremismo religioso, accade anche questo.
Il prossimo 17 marzo Israele si recherà alle urne per eleggere il nuovo parlamento. La sfida sembra giocarsi principalmente tra la formazione di centro-destra, il Likud dell’attuale Primo ministro Benjamin Netanyahu, e il blocco politico di centro-sinistra, “Campo sionista”, costituitosi appositamente per questo turno elettorale dall’unione tra il Partito laburista di Yithzak Herzog e il movimento centrista HaTnuah di Tzipi Livni. Importanti sorprese sembrano poter venire però dai partiti che rappresentano la popolazione araba di Israele, i principali dei quali si sono uniti quest’anno al partito di ispirazione comunista Hadash in una lista comune allo scopo di superare la soglia di sbarramento elettorale, di recente elevata al 3,25%.
Dopo tre anni di silenzi, di accuse reciproche, nonché di una nuova sanguinosa guerra a Gaza risolta attraverso la mediazione egiziana, Tel Aviv e Ramallah ritornano a dialogare. La cosiddetta shuttle diplomacy di kissengeriana memoria, rispolverata nell’occasione da John Kerry, sembra aver prodotto un certo barlume di speranza nella storica disputa che, in caso di buon esito, rappresenterebbe il più grande successo di qualsiasi amministrazione Usa: la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.
Nel 2009 fu la parola speranza a declinare le tappe del viaggio di Barack Obama in Medio Oriente, il primo come presidente degli Stati Uniti. La sua elezione aveva suscitato grande curiosità nel mondo islamico e sull’onda di quell’entusiasmo la Casa Bianca si prefiggeva di trasformare il temporaneo reset emotivo in qualcosa di più duraturo. «Il mio lavoro con i paesi musulmani è spiegare che gli americani non sono loro nemici» dichiarò il neo-presidente in un’intervista ad Al Arabiya pochi giorni dopo la sua partenza.
Il Medio Oriente che Obama visiterà alla fine di marzo andando per la prima volta da presidente in Israele, in Palestina e in Giordania, è diverso da quello da lui affrontato con il suo programmatico discorso sull’Islam e sul conflitto palestinese all’Università del Cairo il 4 giugno 2009. La mano che aveva teso al mondo islamico non è stata accettata mentre l’anti americanismo è cresciuto specie in Egitto dove Obama aveva sostenuto la rivolta contro il regime di Mubarak.
Una cosa è scontata dal giorno in cui Bibi Netanyahu ha convocato le elezioni anticipate: alla fine le vincerà lui. Resta solo da vedere chi sarà il suo vero avversario, se conquisterà i voti sufficienti per emergere: chi si proporrà come vera alternativa, chi tenterà di dare corpo a un’opposizione capace di costruire in un tempo moderatamente breve una proposta diversa di Israele, nel tempo moderatamente breve di una legislatura: in Israele non arrivano mai alla scadenza naturale di cinque anni.
Discontinuità oppure business as usual? La domanda è ancora una volta questa, quando si pensa a cosa riserverà l’anno che verrà a israeliani e palestinesi. Uno scontro a bassa intensità con alcune fiammate, ormai considerate ineludibili? Oppure un nuovo capitolo, seppur ancora confuso, tale da cambiare i parametri del conflitto più irrisolvibile del Medio Oriente?
Per annunciare agli israeliani la fine delle operazioni e la “missione compiuta”, Bibi Netanyahu, il ministro della Difesa Ehud Barak e quello degli Esteri Avigdor Lieberman si erano presentati in diretta tv. Non erano esattamente gli sguardi e i toni della vittoria, quelli esibiti dal vertice politico del Paese. Non è chiaro se nell’ultima crisi di Gaza le forze armate siano riuscite a raggiungere quel cercavano per annichilire la capacità del nemico di lanciare razzi.
E ora parliamo di Hamas, di Israele, di elezioni, di Egitto e di geopolitica, mentre si susseguono raid e cannoneggiamenti dal mare, tutti verso Gaza. Lo sguardo – quello intimo – è puntato sulle persone, sulle case, sulla lunga spiaggia di Shati, sul popolo che al buio sente le esplosioni, sulla mancanza di un qualsiasi rifugio in un posto che è una lunga e stretta lingua di terra dove le case sono le une sopra le altre.