Mentre i negoziati sul nucleare tra Iran e i 5+1 proseguono, avvicinandosi alla scadenza del 24 novembre, occorre riflettere sui vantaggi che un avvicinamento all’Iran comporterebbe. Un riallineamento strategico avrebbe, molto probabilmente, ricadute positive in tutta la regione medio-orientale. In Siria favorirebbe il contenimento dell’Isis e di gruppi jihadisti analoghi, che condividono l’odio verso gli sciiti e l’Occidente, con il possibile effetto di restituire l’opposizione anti-Assad alle formazioni politiche dalle quali è nata nel 2011.
Riyadh ha da tempo metabolizzato la prospettiva di un’intesa definitiva sul suo programma nucleare con i cosiddetti P5+1 (membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu), la liberazione dalla camicia di Nesso delle sanzioni e il conseguente ritorno dell’Iran a una piena cittadinanza internazionale. L’ha a lungo contrastata e forse spera ancora in un inciampo dell’ultima ora, a opera del Congresso americano uscito dal midterm, ovvero di un Khamenei convinto ad anteporre all’accordo la salvaguardia del contesto rivoluzionario di cui è massima espressione.
L’Arabia Saudita sta attraversando una fase alquanto delicata. Si trova infatti a dover rispondere a ineludibili sfide interne e a fare i conti con gli scomodi riflessi del sostanziale mutamento della strategia mediorientale degli Stati Uniti, suo più longevo e rilevante alleato.
A parte qualcuno che vive dalla parti della Russia (come ad esempio Vladimir Putin, che ha definito la fine dell’Unione Sovietica come “la piú grande catastrofe del XX secolo”) sono pochi, a Est e a Ovest, i nostalgici della Guerra Fredda. Eppure va riconosciuto che le conseguenze della sconfitta dell’Urss non sono state tutte positive sotto il profilo del sistema internazionale.
È ancora presto per capire se l’accordo raggiunto il 24 novembre 2013 porterà a una soluzione effettiva dell’annoso dilemma del nucleare iraniano. Un risultato importante sembra comunque averlo conseguito, dando respiro a un’amministrazione – quella di Barack Obama – che nelle settimane precedenti era parsa arrancare sotto il peso delle difficoltà interne e internazionali.
Riuniti a Ginevra per un secondo round di negoziati, dal 7 al 10 novembre 2013, i paesi del gruppo "5 +1" (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germania) da un lato, l'Iran, dall'altro, non hanno raggiunto alcun accordo. La stampa iraniana e i vari commentatori occidentali hanno puntato il dito verso l’"intransigenza" francese.
La ripresa del round negoziale ginevrino sul dossier nucleare iraniano, il 20 novembre, ha vissuto la tragica vigilia di un duplice attentato contro l’ambasciata della Repubblica Islamica a Beirut, in Libano, costato la vita a 23 persone oltre al ferimento di altre 146.
Mancano poche ore al prossimo incontro tra l’Iran e i rappresentati del 5+1 (Cina, Francia, Germania Regno Unito, Russia e Stati Uniti). Nonostante molte incognite e variabili possano incidere negativamente sull’esito finale dei negoziati sul nucleare, per la prima volta dall’agosto 2005, sono presenti elementi concreti e significativi per raggiungere un’intesa ad interim.
Hassan Rouhani è il nuovo presidente della Repubblica Islamica d’Iran. Alla fine il chierico, membro dell’Assemblea degli Esperti, che all’inizio della settimana ha beneficiato del ritiro del moderato Mohammed Reza-Aref ottenendo l’endorsement da parte di Rafsanjani e di Khatami, ha vinto la concorrenza dei candidati conservatori graditi a Khamenei. Non è stato, pertanto, necessario, disputare un secondo turno, come invece i sondaggi degli ultimi giorni avevano largamente pronosticato.
Alla vigilia delle elezioni presidenziali in Iran, sono in molti a interrogarsi circa l’impatto della tornata elettorale sulla questione che, più di ogni altra, incarna il rapporto conflittuale tra Teheran e la comunità internazionale: il dossier nucleare. Dopo i timidi passi in avanti compiuti la scorsa primavera negli incontri di Almaty e Istanbul, le trattative hanno imboccato negli ultimi mesi una fase di stallo che riflette la scarsa chiarezza sulle intenzioni politiche dalle parti coinvolte.
Il Giappone, terza economia mondiale, ha un elevato fabbisogno energetico che viene quasi totalmente soddisfatto dalle importazioni. Con il 75% di materie prime provenienti dall’estero il paese è il primo importatore mondiale di gnl, il secondo di carbone e il terzo importatore netto di petrolio.