Lo scenario politico che si sta delineando negli Stati Uniti in vista delle elezioni presidenziali del novembre del prossimo anno è ancora caratterizzato da molta incertezza, come dimostra la recente rinuncia alla nomination per il partito democratico di Joe Biden. Se da una parte è un’uscita di scena che rafforza la posizione di Hillary Clinton per il dopo-Obama dei democratici, dall’altra è anche un messaggio: un richiamo alla compattezza rispetto alle divisioni interne al partito che tuttora sussistono.
Martedì 22 settembre il presidente Xi Jinping ha inaugurato la sua prima visita ufficiale negli Stati Uniti in un momento cruciale per i rapporti fra le prime due economie del mondo, oggi caratterizzati da contrasti sulla cyber security e sulle dispute territoriali nel Mar cinese meridionale. Per Xi il viaggio è un’occasione per rassicurare il mondo imprenditoriale americano sulla tenuta dell’economia cinese dopo la crisi finanziaria estiva e sulla volontà del governo di Pechino di aprirsi ai mercati internazionali. Tuttavia, il senso politico dell’incontro con Barack Obama va ricercato nel tentativo di costruire una solida relazione fra Cina e Usa. Il consenso sulla lotta al cambiamento climatico potrebbe in ogni caso definire un nuovo modello per la gestione delle politiche internazionali. Dal dialogo tra Obama e Xi dipendono molte delle principali questioni internazionali: il ruolo della Russia, la partecipazione cinese alla governance politica ed economica globale, le politiche energetiche e finanziarie. Nonostante entrambi gli attori non parlino apertamente di G2, la costruzione di un “nuovo rapporto fra grandi potenze” passa inevitabilmente per un ruolo da protagonisti di Cina e Stati Uniti.
La decisione russa di incrementare il proprio sostegno militare al regime di Bashar al-Assad, già nell’aria da parecchi giorni, merita alcune osservazioni.
L’incontro fra il presidente statunitense Barack Obama e il re saudita Salman bin Abdulaziz al-Saud, previsto il 4 settembre a Washington, ha un forte significato simbolico, dunque politico, ancor prima che strategico. Pertanto, il faccia a faccia tra i due storici alleati rappresenta, di per sé, il vero messaggio, che, dunque, precede i contenuti della stessa discussione e gli annunci che potrebbero seguirne.
Già nel 2009 la XIX assemblea dell’Organizzazione degli Stati Americani di San Pedro de Sula aveva annullato l’espulsione di Cuba del 1962. Il governo dell’Avana, pur ringraziando, aveva detto di non essere interessato a rientrare. Poi Raúl Castro ha accettato l’invito all’ultimo vertice di Panama dell’11 e 12 aprile scorso, che è stata anche l’occasione per uno storico incontro con Barack Obama. Cuba, peraltro, dalla fondazione è membro della Celac, la Comunità degli stati latinoamericani e caraibici.
Per oltre cinquant’anni l’embargo commerciale nei confronti di Cuba – iniziato dal presidente Dwight Eisenhower nel 1960 – ha impedito a due paesi distanti appena 150 chilometri lo sviluppo di normali relazioni economiche. L’apertura delle ambasciate di Cuba e Stati Uniti il 20 luglio 2015 porrà fine formalmente a quel muro politico e diplomatico che li divide, ma una normalizzazione delle relazioni economiche sarà tuttavia molto lenta e complicata.
La caduta dell'ultimo muro, quel muro d'acqua che separa Miami da L'Avana, gli Stati Uniti da Cuba, ha molti padri: Raúl Castro e Barack Obama, ma anche Fidel, il Papa e persino la lobby economica della Florida ormai convinta dell'inutilità dell'embargo, in vigore da oltre 50 anni. Ma come spesso è accaduto nelle vicende dell'isola caraibica «la causa es la economia», omologo cubano dell'inglesismo «It's the economy, stupid».
Cuba è storicamente per gli Stati Uniti fonte di grande attenzione strategica, economica e diplomatica. In primo luogo per motivi geografici, L’Avana – spesso suo malgrado – non ha mai davvero potuto sottrarsi allo sguardo interessato di Washington. E quando ha provato a farlo, la Casa Bianca non ha assistito passivamente: prima, nel 1903 a seguito dell’indipendenza, le ha imposto un protettorato; poi, all’inizio degli anni Sessanta poco dopo la revolución, le ha applicato un embargo commerciale che continua tutt’oggi.
Cuba e Stati Uniti riaprono le ambasciate. Cane e gatto dormiranno finalmente accoccolati e in pace tra loro? A ben vedere, c’è fin troppa euforia in giro e il risveglio rischia di far male a tanti. Anzi, la delusione potrebbe perfino dar più che mai fuoco a polveri che parevano almeno sopite.
Il processo di “normalizzazione” tra Cuba e Stati Uniti deve essere letto nel decennale scontro ideologico tra Washington e L’Avana. Soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, la condizionalità democratica delle sanzioni economiche ha incentrato la politica estera americana sulla necessità di vedere un mutamento politico (in senso democratico) sull’isola. Anche la politica di Obama, sebbene con toni meno accesi rispetto ai predecessori, si è comunque mantenuta fedele a tale imperativo [1].
L’accordo raggiunto a Vienna sulla delicata questione del nucleare iraniano apre, per gli Stati Uniti, scenari complessi e dalle implicazioni ramificate. Il semplice fatto che, pur con tutte le difficoltà che hanno punteggiato il negoziato, si sia giunti a questo risultato rappresenta una tappa importante per due interlocutori che dalla rivoluzione del 1979 avevano improntato le proprie relazioni su un’ostilità dichiarata, mai realmente scalfita dalle rade e diffidenti aperture registrate.
Lunghi anni di negoziato, dodici nell’insieme, condotti ufficialmente e segretamente; poi il loro rilancio con l’arrivo alla presidenza di Rouhani, la bozza d’intesa preliminare, i diversi rinvii, quindi i “Parametri” dell’aprile scorso; la scadenza del 30 giugno prorogata al 7, poi al 9 e infine la conclusione il 14 luglio.