“I produttori di petrolio dovrebbero estrarne di più”. Questa la richiesta di Biden nei giorni della COP26: un paradosso con precise motivazioni politiche. Il prezzo del greggio negli USA è ai massimi da sette anni, e si è tradotto in una impennata nei costi di benzina e bollette.
“L’Opec non è più un cartello e l’era dei tagli alla produzione è finita, per cui è privo di senso sprecare tempo per raggiungere simili accordi”. Con queste parole pronunciate a febbraio 2016, Ali al-Naimi, ex ministro del Petrolio saudita e grande influencer dei mercati petroliferi per oltre 20 anni, sembrava aver dichiarato la fine dell’Opec e i media, da sempre attenti osservatori del leader saudita, tendevano a concordare con questa teoria. I fatti accaduti negli ultimi tre anni gli danno torto o ragione?
Per tentare di comprendere cosa stia accadendo lungo la sponda arabica del Golfo, occorre guardare, più che al summit dei capi di stato svoltosi il 10-11 dicembre in Kuwait, a ciò che è avvenuto prima e intorno alla riu-nione. Il tradizionale vertice dicembrino del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) si è infatti concluso con i soliti, vaghi impegni per il rafforzamento della cooperazione economica e finanziaria.
L’eredità di Chávez è un frutto avvelenato. Come toccherà sorbirlo ai venezuelani non si sa. Ma che dovranno farlo è scontato. Guardando agli anni di manna petrolifera alle spalle e ai venti favorevoli dell’economia globale che hanno sospinto le vele di tutta l’America Latina, non sfugge che il Venezuela ha gettato un’occasione storica. Poteva costruire un edificio solido e duraturo. Lascia invece macerie economiche, rovine istituzionali, abissi d’odio che non si vede chi potrà colmare. Ma ha speso per il popolo, diranno i devoti.