Si è concluso ieri lo storico viaggio di Papa Francesco in Iraq. Per la prima volta un pontefice si è recato nella Terra dei Due Fiumi, dove in quattro giorni ha portato a termine una fitta agenda di colloqui istituzionali con figure religiose del mondo cristiano e musulmano (tra cui spicca quello del 6 marzo con il Marja' al-taqlid Ali al-Sistani) e ha visitato luoghi storici della cristianità.
Papa Francesco va in Iraq per portare "fraternità e speranza". È la prima visita di un pontefice nella terra di Abramo.
La Chiesa cattolica ha un nuovo Pontefice: Papa Francesco, nato Jorge Mario Bergoglio. Il nuovo Papa, gesuita ed ex arcivescovo di Buenos Aires, sarà chiamato ad affrontare questioni di grande rilevanza etica e politica che Benedetto XVI ha lasciato aperte e trovare il modo di parlare ai popoli dei Paesi emergenti per ridare alla Chiesa quell’aura di universalità che negli ultimi anni è stata offuscata dal carattere prettamente occidentale della cattolicità.
Mentre l’Europa è scossa dall’attentato terroristico di Manchester, Donald Trump arriva a Roma dove la mattina del 24 maggio incontra Papa Francesco al Palazzo Apostolico. L’incontro, che si svolge in una capitale blindata e in massima allerta, dovrebbe durare circa 20 minuti. Si tratta di un colloquio dall’alto valore simbolico, viste le divergenze che in più occasioni si sono manifestate tra il nuovo inquilino della Casa Bianca e il Santo Padre.
Oggi Trump incontra Papa Francesco: le premesse non sono certo le migliori, dopo i mesi di schermaglie che hanno visto i due in opposizione su numerosi fronti, dai migranti al clima alla pena di morte. Che tipo di incontro sarà?
Un viaggio storico. La visita di Obama assume un importante valore simbolico, equiparabile a quanto avvenuto in Myanmar (novembre 2014), quando incontrò il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, e in Egitto, con il celebre discorso all’Università del Cairo (giugno 2009). L’obiettivo politico è quello di lanciare un messaggio di speranza ai cubani, soprattutto in vista di una data importante, quel 24 febbraio 2018 che dovrebbe segnare l’uscita di scena di Raúl Castro.
Il viaggio di Papa Francesco in Africa toccherà tre paesi, Kenya (25-27 novembre), Uganda (28-29) e Centrafrica (29-30). Sono nazioni che vivono tensioni paradigmatiche dell’intero continente: povertà estrema, tensioni interetniche e interreligiose, guerre.
Per comprendere a fondo il significato che il Pontefice vuole dare al viaggio a Sarajevo che compirà il prossimo 6 giugno (dodici ore in cui terrà cinque discorsi e un’omelia), è sufficiente leggere i nomi di quanti comporranno il ristretto seguito papale. Tra i porporati di curia, infatti, spicca la presenza dei cardinali Kurt Koch e Jean-Louis Tauran.
Rispondendo all’invito di Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, pronunciato in Terra Santa la scorsa primavera, a cui ha fatto seguito il 9 settembre quello del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, Papa Francesco si appresta a fare il suo ingresso nella terra dove sono state poste le basi teologiche della fede cristiana durante i concili di Nicea, Costantinopoli, Efeso e Calcedonia.
Sarebbe riduttivo analizzare l'attività internazionale di Papa Francesco con le categorie della geopolitica o anche solo con la prospettiva di una difesa sia pur legittima degli interessi del Vaticano e del mondo cattolico. L'approccio di Bergoglio non si basa infatti sulle linee tradizionali di articolazione della politica estera, ma nasce da un'impostazione che privilegia, piuttosto, la politica mondiale. Si direbbe, in qualche modo, che Bergoglio stia compiendo una sorta di ri-concettualizzazione autenticamente cattolica, vale a dire universalista, della politica internazionale.
Più si avvicina la partenza del Papa per la Terra Santa, più dal Vaticano si tende a ridimensionare la portata del viaggio, temendo quasi che il successo auspicato non si traduca poi in un’effettiva riuscita della visita di tre giorni tra Giordania, Palestina e Israele. Gli ostacoli non mancano e oltreTevere la parola d’ordine è “prudenza” nel trattare quella che da un anno è considerata una tra le tappe che più caratterizzeranno il pontificato del gesuita argentino asceso al Soglio di Pietro.
L’arcivescovo Pietro Parolin, dal 15 ottobre nuovo segretario di stato della Santa Sede, rappresenta a un tempo il ritorno della grande scuola diplomatica vaticana al vertice della Terza Loggia e una figura inedita, almeno rispetto alla storia degli ultimi cinquant’anni. Nulla sarà come prima, in quella che con la riforma di Francesco è destinata a cambiare nome e diventare “segreteria papale”.