Se nel costume popolare si è soliti affermare che “tra i due litiganti il terzo gode”, in realtà l’Unione Europea e, ancor più nello specifico l’Italia, rischiano invece di patire un aumento di conflittualità fra Usa e Cina, le due maggiori potenze mondiali. Il traumatico passaggio dall’amministrazione Obama a quella Trump ha inasprito una tensione latente che si manifestava tramite il “pivot to Asia”.
Si può definire Xi Jinping “il nuovo Davos Man”, dopo il discorso di gennaio al World Economic Forum in Svizzera? Il segretario generale del Partito comunista cinese davanti all’élite finanziaria ed economica mondiale ha detto che bisogna “navigare nel vasto oceano della globalizzazione senza chiudersi per paura nella stanza buia del protezionismo”.
Le prime settimane successive all’insediamento hanno visto l’amministrazione Trump cercare di definire – non senza difficoltà – una propria linea di politica internazionale.
Il presidente Barack Obama aveva messo nella trattativa tutto il suo peso politico pur di ottenere un accordo sul Trans Pacific Partnership entro la fine del 2013.
Alla fine di quello che è stato probabilmente il mese più difficile per la politica americana del Pivot to Asia, le scelte dell’Australia e del suo nuovo governo a guida conservatrice potrebbero risultare determinanti per gli equilibri strategici nella regione Asia-Pacifico. L’accelerazione della partnership con il Giappone, evidenziata dalla visita a Tokyo nei giorni scorsi del ministro degli Esteri Julie Bishop, appare un segnale in tal senso.
Come si spiegano gli errori e le incongruenze della politica mediorientale di Obama? Derivano davvero dalla mancanza di una strategia o conseguono, anche, a scelte sottaciute e costrizioni che a lungo si è sperato di poter gestire o quantomeno eludere?