Dopo il colpo di Stato di Kiev del 23-24 febbraio 2014, favorito dall’ingerenza negli affari interni ucraini di Washington, di Varsavia e dei Big Three dell’Unione europea (Berlino, Parigi, Londra), la frontiera russo-europea è tornata a essere una «linea di faglia» che evidenzia schieramenti rivali sul punto di entrare in rotta di collisione.
Con ogni probabilità, nemmeno il 2013 sarà, per Barack Obama, l’anno dell’auspicato “change”. Piuttosto, il braccio di ferro con il Congresso a maggioranza repubblicana intorno al tema del tetto del dedito federale – che dal primo ottobre ha portato allo “shutdown” di una lunga lista di servizi e alla messa in aspettativa di quasi un milione di dipendenti pubblici – sembra rappresentare l’ennesimo momento di difficoltà di un presidente fino a oggi incapace di soddisfare le attese (forse eccessive) sollevate all’epoca della sua elezione.
Lo scorso 22 febbraio, il presidente statunitense Barack Obama ha annunciato, con una lettera al Congresso, il dispiegamento di circa 40 funzionari militari in Niger, portando dunque a 100 il numero totale delle truppe Usa presenti nel paese africano.
Nel 2009 fu la parola speranza a declinare le tappe del viaggio di Barack Obama in Medio Oriente, il primo come presidente degli Stati Uniti. La sua elezione aveva suscitato grande curiosità nel mondo islamico e sull’onda di quell’entusiasmo la Casa Bianca si prefiggeva di trasformare il temporaneo reset emotivo in qualcosa di più duraturo. «Il mio lavoro con i paesi musulmani è spiegare che gli americani non sono loro nemici» dichiarò il neo-presidente in un’intervista ad Al Arabiya pochi giorni dopo la sua partenza.
L’ultima volta che Obama si è interessato veramente della situazione israelo-palestinese è stato probabilmente verso il 2008, quando da senatore dell’Illinois si è recato in Terra Santa e ha visitato il Muro del Pianto. Era parte della campagna per le elezioni presidenziali, in un tour promozionale che includeva delle “cover” delle gesta politiche di grandi presidenti del passato – e non è mancato un discorso a Berlino, a evocare lo storico «Butta giù questo muro» rivolto da Ronald Reagan a Mikhail Gorbachev nel 1987.
La tappa al Cairo del recente tour in Medio Oriente del nuovo segretario di stato americano, John Kerry, ha trovato eco sui media globali principalmente per le proteste che ha suscitato presso la variegata galassia delle opposizioni egiziane, tanto sul versante delle piazze, da cui ha presto fatto il giro del mondo la caricatura del neosegretario raffigurato con un’improbabile barba islamica, quanto su quello più politico, con il significativo rifiuto a una proposta d’incontro espresso dai due principali leader del Fronte di Salvezza Nazionale, il
Dopo Kerry, atterra in Medio Oriente Obama. Onorerà un debito di presenza a Tel Aviv e conseguentemente a Ramallah.
Il conflitto civile in Siria ha ormai assunto dimensioni più che preoccupanti, con oltre 70.000 vittime nei due anni di combattimenti intercorsi – la rivolta ha avuto inizio nel marzo del 2011 – e un numero di rifugiati che è stimato in almeno dieci volte tanto (secondo le stime ufficiali dell’Unhcr). Di fronte a quella che è ormai ritenuta a livello globale una vera e propria emergenza non solo di sicurezza, ma umanitaria, le risposte dei maggiori attori internazionali risultano del tutto inadeguate ad affrontare una crisi di tale portata.
All'incontro, che fa parte del ciclo di conferenze “L'Italia e la Politica Internazionale” organizzato nell'ambito dell'Alta Scuola di Politica Internazionale promossa da ISPI e Fondazione Sicilia, è intervenuto Ferdinando Salleo, Presidente Circolo di Studi Diplomatici, già Ambasciatore d'Italia negli Stati Uniti (1995/2003).
Dopo l’enfasi del discorso d’insediamento e il travagliato iter di ratifica di alcune posizioni-chiave dell’amministrazione, c’era considerevole attesa, dentro e fuori gli Stati Uniti, per il discorso sullo stato dell’Unione in cui Barack Obama avrebbe, di fatto, tracciato le linee-guida del suo secondo mandato presidenziale . Quello che ci si attendeva era, fra l’altro, un chiarimento sulle priorità della presidenza “2.0” in ambito internazionale, rimaste in ombra sia nel corso della campagna elettorale, sia nelle prime settimane di vita del nuovo esecutivo.
Il passaggio di consegne tra Hillary Clinton e John Kerry al vertice Dipartimento di stato probabilmente non avrà un impatto rivoluzionario sulle relazioni cubano-americane, visto che Cuba sta retrocedendo nelle priorità americane. Inoltre, Kerry, così come la Clinton, non ha una grande esperienza sulle tematiche regionali e caraibiche, il che potrebbe essere un freno a iniziative storiche nei confronti e di Cuba e dell’America latina nel suo insieme.
Con la conferma da parte del Congresso di John Kerry a segretario di stato della nuova amministrazione Obama va a posto un tassello importante nel puzzle della squadra di governo; questo proprio nel momento in cui, oltre alle crescenti tensioni internazionali, le incertezze intorno alla conferma di Chuck Hagel al Dipartimento della Difesa concorrono a rimescolare le acque non sempre limpide della politica estera statunitense.