Non sono soltanto i partiti politici a battersi per quella che l’ex-presidente Pervez Musharraf aveva definito «la madre di tutte le elezioni». La competizione elettorale che segna il passaggio da un governo democratico all’altro vede in campo difatti molti più giocatori di quanti non ne segnalino le liste elettorali. Giocatori più o meno occulti, impegnati a manovrare i risultati di una competizione che, secondo la maggioranza dei cittadini pakistani, sarà la più truccata della travagliata storia nazionale.
Nel 2008, quando le elezioni parlamentari hanno riportato al potere il Pakistan People’s Party (PPP) dopo nove anni di regime militare e Asif Ali Zardari, il vedovo di Benazir Bhutto, è stato eletto presidente, si è sperato che la svolta democratica potesse facilitare il ripristino dell’ordine e della sicurezza in un paese lacerato da violenze religiose e tensioni etniche, ridimensionare gli elementi religiosi estremisti e ricomporre le fratture politiche interne.
Il voto con il quale, il prossimo 11 maggio, verranno determinati i nuovi equilibri politici pakistani giunge in un momento estremamente delicato del conflitto afghano. È ben difficile, tuttavia, che possa dispiegarvi apprezzabili conseguenze, e men che mai di positive.