Phnom Penh: un’ombra scura si staglia all’orizzonte delle manifestazioni contro il governo di Hun Sen, una nube impregnata di atavici rancori e di odio. L’onda umana che dallo scorso settembre costantemente scende in piazza gridando a migliori salari, minore corruzione e invocando elezioni regolari per ora non è riuscita a spazzare via l’apparato di Hun Sen, ma ha avuto successo nello sfogare tutta la propria frustrazione in poche ore di follia dello scorso 3 gennaio.
Contro tutte le apartheid. Con questo slogan si sono riuniti insieme il musicista palestinese Mohammed Omar e la band sudafricana The Mavrix. “The New Black”, la canzone nata dalla loro collaborazione, uscirà a giugno all’interno dell’ultimo album dei Mavrix “Pura Vida”. Il testo, scritto da Jeremy Karodia e Ayub Mayet è tratto dal libro “Mornings in Jenin” della scrittrice di origine palestinese Susan Abulhawa.
«Ragazzi, dobbiamo scegliere. O ci teniamo le nazionalizzazioni e non otteniamo gli investimenti o rinunciamo al nostro atteggiamento e otteniamo gli investimenti». Mandela aveva già scelto ma era suo costume convincere prima anche i suoi. Era appena tornato da Davos e al World Economic Forum l’accoglienza che gli aveva riservato il capitalismo mondiale era stata trionfale. Gennaio del 1992 stava finendo: l’Urss non esisteva più e con essa il comunismo fuori da Cuba, dalla Siria e dalla Corea del Nord. Il grande business e una nuova parola, “globalizzazione”, erano la promessa.
Quando il presidente F.W. De Klerk dichiarò in Parlamento la fine della «stagione della violenza», che i partiti antirazzisti sarebbero stati legalizzati e i prigionieri politici rimessi in libertà, le prime reazioni furono improntate a giubilo e ansietà. L’uno e l’altra insieme. Non il giubilo dei neri dopo tante sofferenze e l’ansietà dei bianchi per la sorte dei privilegi di cui avevano goduto dietro lo scudo dell’apartheid. Tutto il Sudafrica trattenne il fiato in un misto di speranza e paura. E adesso?
Quando il presidente F.W. De Klerk dichiarò in Parlamento la fine della «stagione della violenza», che i partiti antirazzisti sarebbero stati legalizzati e i prigionieri politici rimessi in libertà, le prime reazioni furono improntate a giubilo e ansietà. L’uno e l’altra insieme. Non il giubilo dei neri dopo tante sofferenze e l’ansietà dei bianchi per la sorte dei privilegi di cui avevano goduto dietro lo scudo dell’apartheid. Tutto il Sudafrica trattenne il fiato in un misto di speranza e paura. E adesso?
Da sempre la Svezia (e gli altri paesi nordici) sono considerati un’oasi di civiltà e benessere, in cui le generose politiche di welfare si sono accompagnate ad altrettanto generose politiche di asilo e immigrazione. Politiche che hanno attirato negli anni un numero crescente di immigrati e richiedenti asilo: si parla di 100.000 persone all’anno, con il risultato che oggi un quarto della popolazione svedese è di origine straniera.