Il 25 settembre i cittadini curdi iracheni saranno chiamati ad esprimere il proprio parere circa l’eventualità che la Regione autonoma del Kurdistan iracheno possa diventare de facto uno Stato indipendente. Mentre la comunità internazionale si interroga con preoccupazione su cosa possa accadere all’indomani del voto referendario, continua ad aleggiare un clima di incertezza circa le ripercussioni del voto.
Il prossimo 16 aprile i cittadini turchi sono chiamati alle urne in quello che sembra uno degli appuntamenti più importanti e controversi della storia recente della Turchia: un referendum che potrebbe trasformare il paese in una Repubblica presidenziale, introducendo la riforma costituzionale voluta dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. La posta in gioco è il futuro assetto politico del bastione orientale della NATO, poiché il risultato della consultazione potrebbe sbilanciare il sistema di checks and balances istituzionali sul quale il paese si è retto sinora.
A soli pochi giorni dal voto referendario del 16 aprile in Turchia non è possibile prevederne l’esito. I due schieramenti del ‘sì’ e del ‘no’ si contendono un margine di voti piuttosto basso e i sondaggi pubblicati da diverse agenzie oscillano dando uno o l’altro per favorito e evidenziando un’ampia schiera di indecisi. Si tratta di un voto determinante che potrebbe decidere di modificare la Costituzione per introdurre un regime presidenziale che attribuisce pieni poteri al presidente della Repubblica.
Alla vigilia del referendum costituzionale, quali sono le difficoltà economiche che Ankara sta incontrando e quali le prospettive di medio termine? Il deficit delle partite correnti della Turchia, il vero tallone di Achille di Ankara, è aumentato a 2,76 miliardi di dollari a gennaio 2017 dai 2,2 miliardi di dollari dello stesso mese del 2016, secondo i dati resi noti della Banca centrale turca il 13 marzo. Il deficit corrente annualizzato del paese è salito a 33,2 miliardi di dollari a gennaio dai 32,6 miliardi di dollari nel mese di dicembre.
I cittadini turchi si trovano di fronte a una consultazione referendaria cruciale per il futuro del loro paese. Con il voto al referendum del prossimo 16 aprile sono chiamati a decidere sulla trasformazione della Repubblica turca da parlamentare in presidenziale, contribuendo così alla realizzazione del sogno di Recep Tayyip Erdoğan di diventare un presidente dai super poteri.
Da responsabili della tenuta costituzionale ai margini del potere. Alla vigilia del prossimo referendum costituzionale sarebbe questa, in sintesi, la fotografia che ritrae le Forze armate turche (Tsk) all’interno dell’attuale scenario nazionale. Dal 2002, anno in cui il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) è salito al governo, le Tsk hanno gradualmente perso quel controllo sul potere che in passato ha dato loro la facoltà di intervenire per modificare il corso politico turco.
La Turchia che si appresta a recarsi alle urne per decidere se consegnare il paese a Erdoğan fino al 2029, è segnata da un numero: 2.641. Secondo fonti autorevoli come l’International Crisis Group e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, tante sono le vittime della recrudescenza delle violenze tra Stato turco e combattenti curdi dall’estate del 2015 al 4 aprile 2017. Vale a dire, una media di 3 vittime al giorno. Cifre da guerra.
“Conclusa l'elezione, è venuto il momento di lasciarsi alle spalle la polarizzazione, il confronto. È tempo di lavorare insieme e a favore del nostro Paese”. Non sono parole pronunciate da Donald Trump nel discorso della vittoria dopo l’Election Day, ma dal presidente messicano Enrique Peña Nieto dopo l’ultima tornata elettorale nel suo Paese lo scorso giugno.
L’evidente indebolimento di Maduro non é il preludio alla fine del suo governo, ma può rappresentare la premessa ad un aumento della violenza e della repressione contro la popolazione.
Per ottenere una firma frettolosa il presidente Santos ha ceduto troppo. E la popolazione colombiana non ha perdonato.
Anche se al referendum ungherese sulle quote migranti non è stato raggiunto il quorum, il primo ministro Viktor Orbán e tutto il suo governo esprimono soddisfazione per la netta prevalenza del “no” alle urne. Per il premier è sufficiente il fatto che 3,3 milioni di ungheresi abbiano respinto la politica delle quote obbligatorie di accoglienza dei migranti. Di questo, a suo parere, Bruxelles dovrà tenere conto.