Abstract
Come ha rivelato il portavoce del partito al-Nour sulle colonne di Ahram online: «La corrente islamista [egiziana] può essere divisa in tre parti in base ai differenti posizionamenti rispetto le elezioni presidenziali: in primo luogo, i Fratelli musulmani (compresi i loro alleati della Jama'a al-Islamiyya, così come alcuni jihadisti e gruppi salafiti rivoluzionari); il partito al-Nour che rappresenta i salafiti egiziani organizzati e infine i gruppi fedeli a vari ulema salafiti indipendenti».
Introduzione
La Costituzione della Tunisia del dopo Ben ‘Ali è stata adottata nella notte tra il 26 e il 27 gen-naio 2014, com’era stato annunciato nei giorni precedenti. L’atto finale della transizione è giunto insieme alla formazione di un nuovo governo, ufficialmente tecnocratico, guidato da Mehdi Jomaa, già Ministro dell’Industria durante il secondo governo di al-Nahda.
Due eventi, uno certamente accaduto e l’altro in parte smentito, hanno scosso venerdì scorso lo Yemen. Abdul Karim Jebdan, parlamentare e delegato alla conferenza di Dialogo Nazionale, è stato ucciso a colpi di pistola nella capitale mentre, sulla sua auto, tornava a casa dopo essersi recato in moschea per la preghiera del venerdì. I due assassini, che hanno sparato da una motocicletta, non sono ancora stati identificati, se mai lo saranno.
L’assassinio di Mohamed Brahmi, uno dei leader del Partito del Movimento Popolare – parte del gruppo di opposizione Fronte Popolare – e membro dell’Assemblea Costituente tunisina, è l’ennesimo atto di violenza politica che sta sconvolgendo il Paese nel mezzo del suo processo di transizione democratica. L’uccisione, avvenuta con le stesse modalità dell’agguato che costò la vita a Chokri Belaid il 6 febbraio scorso, è avvenuta non solo in un momento particolare per la vita politica della Tunisia, ma anche in un giorno speciale.
La zona cuscinetto a terra di nessuno, dunque di tutti: la destituzione del presidente egiziano Mohamed Morsi sta accelerando il peggioramento delle condizioni di sicurezza nel Sinai, da mesi avvitatosi in un’escalation di violenza. Se l’intero Egitto pare essere entrato in una fase cupa e confusa – nella quale gli stessi attori politici e religiosi sembrano incapaci di soppesare le conseguenze profonde delle proprie azioni – esistono almeno tre ragioni di ancora maggiore inquietudine per la penisola.
A pochi giorni dal primo anniversario della presidenza Morsi e a oltre due anni dallo scoppio delle sollevazioni che hanno portato alla caduta del regime di Mubarak, l’intero Egitto sembra trattenere il respiro, in attesa di conoscere cosa avverrà il 30 giugno.
La campagna di Siria si preannuncia, per Hezbollah, complicatissima. Dopo che lo scorso 25 maggio il leader del partito-milizia, Hassan Nasrallah, ha pubblicamente confermato la presenza di combattenti sciiti libanesi al fianco delle forze di Bashar al Assad (insieme agli al-Quds iraniani del generale Qassim Suleimani), numerosi interrogativi si addensano intorno al ruolo del “Partito di Dio” nella guerra civile siriana.
Tamarud contro Tagarud. Ribellione contro imparzialità. Non si tratta solo dei nomi di due movimenti antagonisti, gli uni creatori di una petizione per le dimissioni anticipate del presidente egiziano Mohammed Morsi, gli altri sostenitori della prima presidenza islamista nella storia del paese. C’è di più: essi rappresentano due visioni della realtà divergenti e sorde le une alle altre.
Uno dei termini usati dai media per descrivere la parte più estremista dei gruppi armati operanti in Mali o Siria è “salafita”. Questa parola è diventata ormai sinonimo di musulmano conservatore o, in altri casi, d’integralista che condivide o è ideologicamente vicino alle posizioni espresse dalle organizzazioni terroristiche più radicali, come al-Qaida.
Dopo giorni di serrati negoziati tra i partiti della maggioranza tunisina circa l’eventualità della formazione di un governo tecnico che fosse in grado di transitare il paese verso le prossime elezioni parlamentari, il primo ministro Hamadi Jebali si è dimesso, in seguito al rifiuto del suo stesso partito, Ennahda, di ricorrere a una simile soluzione.
A due anni dall’avvio delle rivolte in Libia (15-17 febbraio 2011) il paese è alle prese con il rischio di piombare nell’anarchia. Nonostante l’impegno, il governo di Ali Zeidan, nominato nell’autunno dal Parlamento eletto nel luglio scorso non controlla ampie parti del paese, soprattutto nel Fezzan e in Cirenaica. Da diverse settimane addirittura il Parlamento è stato occupato da alcuni manifestanti che ne impediscono il normale funzionamento.