Negli ultimi mesi il fronte del jihad è sembrato ridefinirsi attraverso nuove direttrici: dall’Iraq alla Siria verso l’Egitto e la Libia, attraversando il deserto dell’Algeria e del Mali sino all’Africa occidentale, confermando la tendenza all’irradiamento delle formazioni radicali islamiche in Africa e ribadendo la trasformazione della fascia sahelo–sudanese immediatamente a sud del Sahara in una regione di instabilità e insicurezza. Alla luce di questo, il Sahara ha acquisito una nuova centralità geopolitica: se già dal 2013 l’attenzione si era focalizzata sul Mali e sull’intervento internazionale contro le formazioni radicali islamiche e secessioniste che ne avevano occupato il nord, l’attentato di Grand–Bassam (Costa d’Avorio) del 13 marzo scorso sembra rivelare un ulteriore passo avanti nella strategia dei gruppi terroristici. La concomitante rivendicazione di Aqim e al–Mourabitoun pare offrire una duplice chiave di lettura: da una parte, una nuova frontiera geopolitica della minaccia, con organizzazioni capaci di operare in luoghi sensibili ma storicamente distanti dalle tradizionali aree d'azione; dall’altra, la possibilità di una convergenza tra i numerosi gruppi (compreso Boko Haram), ora pronti a collaborare in una nuova e fluida convergenza tattica.
Ci sono luoghi periferici e sconosciuti in cui all’improvviso, in determinati momenti storici, si concentrano tensioni e forze tali da trasformarli in centri d’interesse internazionale. Diffa, capoluogo a qualche chilometro dalla frontiera della Nigeria della regione più povera del paese più povero al mondo, il Niger, è uno di questi ombelichi geopolitici. Qui come nell’intera area attorno al Lago Ciad da oltre un anno è attivo Boko Haram,
Se si osserva la sequenza di attentati avvenuti a sud del Sahara tra fine 2015 e inizio 2016, i più esposti sembrano essere i paesi a guida democratica. Nonostante i messaggi di resa diffusi via web dal leader Abubakar Shekau, la Nigeria nordorientale è bersagliata quotidianamente da attacchi di Boko Haram. Il Mali ha subito a novembre un attentato in un albergo nel cuore della capitale Bamako.
All’indomani del tentativo di insediamento a Tripoli del governo di unità nazionale guidato dal premier incaricato Fayez al-Sarraj, sembra concretizzarsi l’ipotesi di un intervento militare che veda l’Italia tra gli attori principali, se non addirittura alla guida formale della coalizione internazionale composta, tra gli altri, da Stati Uniti, Francia e Regno Unito.
Il sanguinoso massacro compiuto da al-Shabaab (As) il 2 aprile 2014 all’Università di Garissa ha posto una pietra tombale su ogni speculazione. L’attivismo di As in Kenya non è una minaccia esogena e né quell’attacco fu una semplice ritorsione per la partecipazione delle Kenya Defence Forces (Kdf) alla missione dell’Unione africana in Somalia (Amisom).
La genesi degli stati africani, soprattutto per quanto riguarda la loro conformazione geopolitica, è stata segnata, più di quanto non avvenga un po’ ovunque quando ci siano scambi trasversali di carattere umano o economico, da influenze esterne. Il colonialismo europeo, nella sua funzione di state-maker, ha rappresentato il fattore che ha influito di più non solo sul tracciato dei confini ma sulle istituzioni e in ultima analisi sui meccanismi del potere, a cominciare dal grado effettivo d’indipendenza conseguita o consentita.
I tragici eventi di Bruxelles hanno dimostrato ancora una volta come il conflitto promosso dal sedicente Stato Islamico (IS) non sia confinato al solo Medio Oriente, ma sia in grado di colpire il cuore pulsante dell’Europa e i principali simboli del processo di integrazione. Mentre i leader dei Ventotto si dovrebbero riunire domani nella capitale belga in un nuovo vertice sulla sicurezza europea, opinione pubblica e istituzioni nazionali si interrogano su quale sia la risposta più appropriata ed efficace da adottare, evitando semplificazioni e reazioni emotive che rischiano di essere fuorvianti e/o inconcludenti nel contrastare un fenomeno di portata sempre più ampia.
I tragici fatti di Bruxelles hanno sollevato perplessità sulla mancanza di collaborazione tra le intelligence e le forze di polizia europee nella lotta al terrorismo. Una efficace strategia di contrasto ha necessariamente bisogno di politiche di prevenzione, indagini precise e attenzione costante che, di fronte a un nemico che gode di una rete transnazionale, possono realizzarsi solo con una stretta cooperazione tra le diverse forze di sicurezza nazionali.
Sebbene sia ancora troppo presto per ricavare alcuna seria indicazione operativa, gli attacchi che nelle ultime ore hanno colpito Bruxelles hanno evidenziato in maniera incontrovertibile un elemento su tutti: la vulnerabilità di una “fortezza Europa” che è sempre stata tale solo nei sogni dei suoi sostenitori. E che, a dispetto delle misure di contenimento adottate negli ultimi mesi, continua a essere esposta a un’ondata di instabilità che ignora barriere e confini.
Gestione dei flussi migratori e contrasto al terrorismo, specialmente di matrice jihadista, sono evidentemente due tra le sfide più rilevanti e impegnative che l’Europa debba affrontare nella nostra epoca. Si tratta di due fenomeni transnazionali ben distinti, guidati da logiche differenti, che tuttavia possono trovare occasionalmente punti di intersezione.
Nel corso dell’ultimo lustro, nella regione del Mediterraneo le speranze accese dalla cosiddetta Primavera araba hanno lasciato spazio a scenari marcati da numerosi elementi di preoccupazione e di allarme.
Cosa significa lavorare in un paese a rischio terrorismo? A raccontarcelo è Federico Jachetti, ex studente del Master ISPI in International Cooperation, che oggi lavora a Bamako, in Mali, dove si occupa degli aspetti logistici per i progetti della Croce Rossa francese. (...)