Se qualcuno aveva pensato che con il collasso del Califfato fosse finita la minaccia terroristica a livello globale e nel nostro paese, le ultime ore hanno fatto capire che, come gli operatori del settore ben sapevano, si era semplicemente entrati in una nuova fase del conflitto con la galassia jihadista. Tre operazioni antiterrorismo in tre giorni. Nord, centro e sud Italia. E tre tipologie di radicalizzazione e minaccia totalmente diverse tra loro.
L’operazione antiterrorismo messa in atto ieri a Foggia segna un momento importante nel contrasto all’estremismo jihadista in Italia. Il blitz giunge al culmine di un’inchiesta avviata dalla Digos di Bari, che da tempo stava monitorando un piccolo luogo di culto (abusivo) denominato “Al Dawa”, presso la stazione di Foggia – regolarmente frequentato da due militanti jihadisti in seguito arrestati, tra cui un ex foreign fighter ceceno. Ad ogni modo, le attività di militanza non riguardavano solo un circolo di adulti.
Negli ultimi anni, l’Italia non è stata colpita da attacchi terroristici di matrice jihadista, né ha sperimentato gli elevati livelli di radicalizzazione di alcuni dei suoi vicini europei. Significativamente, il numero di foreign fighters che hanno abbandonato il territorio italiano per unirsi allo Stato Islamico o ad altri gruppi jihadisti – circa 130 individui – è molto più basso se comparato ai numeri della Francia, della Germania, del Regno Unito, ma anche di paesi più piccoli come l’Austria o il Belgio.
Il terrorismo è tornato a colpire violentemente l'Afghanistan. La sequenza di attentati degli ultimi mesi contro obiettivi civili e istituzionali parla chiaro: dopo oltre quindici anni di missione internazionale, il paese è ancora lontano da una prospettiva di stabilità duratura.
I ‘proto-negoziati’ tra Taliban e governo afghano hanno raggiunto il proprio apice nell’estate del 2015, quando all’incontro di Murree l’allora leader Akhtar Mohammad Mansur sembrava pronto a fare serie concessioni, al fine di far avviare il negoziato veri e proprio con Kabul. L’uccisione di Mansur nel maggio del 2016 da un drone americano ha chiuso una stagione negoziale che già ristagnava da diversi mesi. Mansur non aveva trovato la sponda che cercava a Kabul, e si era venuto a trovare politicamente sempre più isolato all’interno dei Taliban.
Nel 2018, il conflitto in Afghanistan è destinato a intensificarsi. Sono due le ragioni principali. La prima ha a che fare con la scelta del presidente Usa, Donald Trump, di derubricare come secondaria la via negoziale e privilegiare l’opzione militarista, il ricorso ai droni e alle operazioni speciali: sotto pressione nelle aree rurali, i movimenti anti-governativi hanno già dirottato parte delle proprie risorse e capacità operative per colpire obiettivi urbani, garanzia di maggiore copertura mediatica, come dimostrano i recenti attentati.
A questo tema è dedicato il ciclo di incontri Stato Islamico: What's Next?
Oltre ad avere una lunga storia di criminalità organizzata alle spalle, l'Italia si confronta da oltre due decenni con la presenza di network di matrice jihadista sul proprio territorio. Quali sono - o possono essere - i collegamenti tra criminalità e terrorismo? Quali misure possono essere adottate per fronteggiare il rischio di una convergenza?
L’Afghanistan è al centro di una nuova ondata di violenza. Oltre quindici anni di missione internazionale non sono riusciti a mettere fine al conflitto civile che ancora insanguina il paese: la recrudescenza degli attacchi terroristici negli ultimi mesi, e soprattutto nel corso degli ultimi giorni, ne è testimone.
Con un’operazione di polizia, denominata significativamente “Talis Pater”, il 26 gennaio 2018 le Digos di Milano e di Como hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per due cittadini stranieri, un egiziano di 51 anni, Sayed Fayek Shebl Ahmed, e il figlio di 23 anni, Saged Sayed Fayek Shebl Ahmed, per associazione con finalità di terrorismo.
Un rapporto tra pari, tra vicini – solo 14 chilometri separano Africa e Europa – che condividono interessi e responsabilità.