I ministri del G20 raggiungono l’accordo per un pacchetto ambientale. Ma le distanze sui tempi e il finanziamento della transizione restano.
I ministri del G20 raggiungono l’accordo per un pacchetto ambientale. Ma le distanze sui tempi e il finanziamento della transizione restano.
Il 7 febbraio 2016 è stata approvata da un’estesa maggioranza parlamentare la nuova Costituzione algerina. Un testo atteso dal 2011, da quando sull’onda delle Primavere arabe che avevano scosso la regione – e marginalmente anche l’Algeria – il presidente Abdelaziz Bouteflika aveva cominciato delle lunghe consultazioni con le parti politiche, per arrivare alla stesura di una rinnovata Carta fondamentale della Repubblica.
Nell’intricato reticolo di relazioni bilaterali e regionali che coinvolgono i paesi del Medio Oriente e del Maghreb e nelle diatribe incrociate tra Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Fratellanza musulmana e altri attori, la Tunisia sta lentamente cercando di diversificare le direttrici della propria politica estera.
Tre anni fa, appena scoppiata la scintilla delle cosiddette “primavere arabe”, mentre le piazze di Tunisi e del Cairo si riempivano e costringevano i vecchi presidenti autoritari a fuggire, era opinione comune che la Turchia sarebbe stato il punto di riferimento per quei paesi che, usciti da anni di autoritarismo, si apprestavano a mettere in moto il loro processo di transizione.
Tornato alle urne per la sesta volta in tre anni, l’Egitto avrà tra pochi giorni una nuova Costituzione che sostituisce quella a forte impronta islamista approvata poco più di un anno fa dal deposto nonché legittimamente eletto presidente Mohammed Morsi. Ma più che sui 247 articoli messi a punto a dicembre da una Commissione di 50 membri, il referendum chiedeva l’approvazione del paese sull’operato del ministro della Difesa al-Sisi, architetto del golpe popolare dell’estate scorsa e della successiva messa al bando dei Fratelli musulmani.
La dissoluzione di Séléka, la coalizione dei gruppi armati che mise fine al regime di François Bozizé con la presa di Bangui nel marzo scorso, decisa da Michel Djotodia il 13 settembre scorso, chiude una fase della transizione e ne apre un altra, che si annuncia a tinte fosche.
Il 16 luglio ha giurato di fronte al presidente ad interim Adly Mansour il nuovo esecutivo egiziano guidato da Hazem al-Beblawi, un economista di fama internazionale che aveva retto per pochi mesi nel 2011 il dicastero dell’economia nel concitato periodo seguito alla caduta del regime di Hosni Mubarak.
Dovevano essere stati sconfitti dalla Fratellanza Islamica, la realtà è che non se ne sono mai andati. I militari sono rimasti anche in questi anni uno dei centri di potere in Egitto, ma hanno voluto recitare la parte degli arbitri imparziali che hanno a cuore soltanto l’interesse della nazione. Ora sono tornati a fare politica attiva, come succedeva prima dell’elezione di Morsi, ma questo non significa che l’Egitto sia tornato al passato.
Il fallimento dell’esperienza politica di Morsi affonda le proprie radici in una serie di fattori, difficilmente sottoponibili a qualche forma di gerarchia.
L’islamizzazione è fenomeno che attiene più alla sfera sociale di parte del paese che alla legislazione vera e propria (l’art 2. della Costituzione egiziana, che indica la sharia come fonte principale del diritto, è esattamente identico a quella della Costituzione mubarakiana).
C’è una battuta che circola in questi giorni nelle piazze ribelli d’Egitto. «Del primo presidente ci siamo liberati in diciassette giorni, del secondo in quattro, per il terzo basterà un tweet» scherzano i giovani protagonisti dello tzunami politico che loro chiamano rivoluzione contro i Fratelli Musulmani e molti, all’estero, colpo di stato militare.