Il Segretario di Stato Usa Blinken a Roma. Poi Bari e Matera per la prima ministeriale G20 a presidenza italiana, con Russia e Cina che partecipano all’evento in videoconferenza.
Il Segretario di Stato Usa Blinken a Roma. Poi Bari e Matera per la prima ministeriale G20 a presidenza italiana, con Russia e Cina che partecipano all’evento in videoconferenza.
Nel suo duro commento di martedì, nel quale il presidente degli Stati Uniti è definito “più gangster che imprenditore”, Michelle Goldberg del New York Times sintetizza così l’affare russo riesploso in città: la “cospirazione di Trump contro la nostra democrazia”. “The Plot Against America”, era il titolo dell’articolo.
Nei giorni scorsi ho letto critiche quasi rabbiose al mutamento di rotta impresso dall’Amministrazione Trump nei riguardi dell’Iran. Gli aggettivi usati in proposito parlano di “radicale” cambiamento promosso da Trump alla politica di riavvicinamento perseguita da Obama nel contesto di una “pax medio-orientale” affidata alle responsabilità dei paesi della regione; parlano di “aggressività” delle prese di posizione del nuovo Presidente nei riguardi dell’Iran e parlano addirittura di “bellicosità” pericolosa in quanto suscettibile di aprire il varco ad una g
Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, si dice. E se a dire è un politico, e per giunta in campagna elettorale, allora il mare diventa un oceano. In fondo, tutti i benpensanti condividono quest’asserzione perché l’esperienza dice che così accade, con buona pace di chi invece vota sperando che alle parole e alle promesse seguano fatti e adempimenti conseguenti.
Da una settimana, dopo l’insediamento ufficiale del 20 gennaio, Donald Trump è a tutti gli effetti il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti. In questi giorni non sono mancati gli attacchi sia da parte di settori della società statunitense, sia della comunità internazionale.
Incertezza è la parola chiave per comprendere questa fase di possibile, se non persino probabile, fase di transizione della politica estera americana alla luce dell’insediamento di Donald Trump come quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti.
Da un lato chi vuole aiutare la classe media, dall’altro chi desidera sostenere quella elevata. Da un lato chi vuole più globalizzazione e più rapporti internazionali, dall’altro chi sostiene l’idea che il paese debba evitare di mostrare il fianco agli “invasori economici”. Le elezioni presidenziali statunitensi hanno assunto una polarizzazione mai vista prima. Ed è merito dei due candidati, Hillary Rodham Clinton per i Democratici e Donald John Trump per i Repubblicani, se si è giunti a questo punto.
Sebbene sembri cominciata da anni, l’avvio ufficiale della campagna elettorale americana avverrà soltanto tra pochi giorni, con la conclusione delle convention dei due partiti e l’incoronazione dei rispettivi candidati: Hillary Clinton per i democratici, Donald Trump per i repubblicani.
Agli antipodi. Basterebbero queste due parole per riassumere le idee di politica estera espresse finora pubblicamente dai candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump e Hillary Clinton.
Il frontman repubblicano, magnate eccentrico e senza peli sulla lingua, è quello che al momento dà l’idea di poter riservare le maggiori sorprese qualora fosse eletto alla Casa Bianca.
Nel settimo e ultimo Stato dell’Unione Barack Obama ha cercato di tracciare l’eredità della sua presidenza guardando ai «prossimi cinque, dieci anni e oltre». Il Presidente ha toccato vari punti, dall’economia alla politica estera, sottolineando come gli Stati Uniti oggi non siano una potenza in declino; al contrario, ha rivendicato la leadership globale di Washington che, forte di una solida ripresa economica e della rivoluzione energetica, ha le carte in regola per continuare a giocare il ruolo di egemone. (...)
Sono bastati 45 minuti di telefonata tra Obama e Raùl Castro per cancellare 53 anni di silenzi e di negazione reciproca? È presto per dirlo, ma quanto è accaduto il 17 dicembre 2014 potrebbe effettivamente rappresentare una data storica non solo nel rapporto tra Stati Uniti e Cuba ma anche per l’intera storia delle relazioni internazionali, poiché il rapprochement tra Washington e L’Avana potrebbe mettere fine a una delle crisi più longeve dell’età contemporanea del secondo dopoguerra.
«È cosa risaputa che nel momento in cui scoppia una crisi in qualsiasi parte del mondo, l'interrogativo per alcuni è sempre “Cosa significa questo per Israele?”» faceva notare nei giorni scorsi Ronald Tiersky, docente di scienza politica, sulle colonne dell'Huffington Post(1). In effetti, per quanto in questi giorni Israele sia più occupato sul fronte interno, esistono dei potenziali effetti negativi dell'avanzata dello Stato Islamico (IS).