
I risultati del “super martedì” sembrano confermare, in larga misura, le previsioni della viglia. Sul fronte democratico, Hillary Clinton ha ottenuto larghi successi negli stati del sud (con punte del 78% in Alabama e del 71% in Georgia) riuscendo, al contempo, a contenere i danni in quelli settentrionali, sui quali la campagna di Bernie Sanders aveva puntato maggiormente. Con 453 delegati conquistati in questa tornata contro i 284 dal suo avversario, l’ex Segretario di Stato consolida così ulteriormente il suo margine di vantaggio, passando da 90 a 543 delegati totali (esclusi i 457 super-delegati) a fronte di un quorum di 2.383 per conseguire la nomination. Sul piano “strutturale”, data per scontata la buona performance di Sanders nel Vermont (86% dei consensi con il 97% delle schede scrutinate), il successo della Clinton in Massachusetts, seppure risicato (50% contro il 49% di Sanders con il 97% di schede scrutinate), è inoltre indicativo della sua crescente capacità di intercettare un consenso “a largo spettro”, come anticipato dai sondaggi dei giorni scorsi, che avevano evidenziato la vicinanza dei due candidati nei favori dell’elettorato (risultato – questo – non scontato visto il largo successo di Sanders nel New Hampshire, il 9 febbraio). In vista dei prossimi appuntamenti (fra il 5 e il 6 marzo il Partito democratico terrà le sue primarie in Kansas, Louisiana, Nebraska e Maine, mettendo in palio 155 delegati in totale, mentre l’8 marzo le primarie in Michigan e Mississippi ne assegneranno altri 189) preoccupano, invece, le difficoltà che Bernie Sanders ha ancora una volta manifestato nell’uscire dalla constituency di giovani (twentysomethings), liberal e bianchi all’interno della quale riscuote larga parte dei propri consensi.
Sul fronte repubblicano possono essere ripetute considerazioni simili. Nonostante le resistenze interne al partito (o, forse, proprio a causa di queste), Donald Trump ha dimostrato ancora una volta di riuscire a intercettare meglio di tutti i suoi numerosi rivali le richieste di una “base” che si sente sempre meno rappresentata dai nomi dell’establishment. La relativa tenuta di Ted Cruz (che vince in Texas, stato di cui è senatore, Oklahoma e Alaska, guadagnando 161 delegati) e i nuovi deludenti risultati di Marco Rubio (che conquista il solo Minnesota e che, per il resto, si attesta su percentuali di consenso comprese fra il 15 e il 25%) sono un’altra conferma di come, negli otto anni della presidenza Obama, l’asse politico del Grand Old Party si sia gradualmente spostato verso posizioni più radicali. Anche nel caso di Trump, la ragione prima del suo successo sembra essere la capacità di raccogliere il favore di un ampio numero di bacini elettorali diversi. Da questo punto di vista, il “super martedì” ha evidenziato in modo chiaro come il tycoon newyorchese – a differenza dei suoi rivali – sia il solo in grado di imporsi come un candidato credibile a livello nazionale, riscuotendo ampi margini di consenso in realtà diverse come il Massachusetts (49% dei consensi con il 97% delle schede scrutinate) e l’Alabama (43% dei consensi a scrutinio completato). Si tratta di un passaggio importante soprattutto perché – come nel caso del Partito democratico – anche in quello del Partito repubblicano, il mese di marzo sarà punteggiato da una lunga serie di appuntamenti, a partire dai caucus in Kansas e Kentucky e dalla primarie in Louisiana e Maine, che già il 5 marzo assegneranno in tutto 150 delegati.
Ci si avvia, dunque, verso uno scontro Clinton-Trump per la conquista della Casa Bianca? Pur senza la certezza matematica, i due candidati hanno oggi in mano, rispettivamente, il 22,7 (al netto dei super-delegati) e il 23,0% dei delegati necessari alla propria nomination. Entrambi, inoltre, non sembrano avere, all’interno del proprio schieramento, un rivale capace di invertire davvero la tendenza sino ad ora manifestatasi. Il fatto che, sul fronte repubblicano, i candidati “minori” Kasich e Carson non si siano ancora chiamati fuori della competizione è un altro fattore che gioca a vantaggio di Trump, favorendo la dispersione del voto a livello locale (in Vermont, ad esempio, Kasich ha raccolto il 30% dei consensi, poco sotto il 33% di Trump ma molto sopra il 19% del terzo arrivato, Rubio, mentre in Massachusetts sempre Kasich ha conquistato il 18% dei consensi, la stessa percentuale di Rubio) e accentuando la sua capacità di proporsi come player “a tutto campo”. D’altra parte, quella fra l’ex Segretario di Stato e il “magnate prestato alla politica” sarebbe una sfida che rappresenta bene una serie di tendenze che oggi percorrono – seppure sottotraccia – l’intera vita pubblica americana. Fra queste, quella forse più importante riguarda il ruolo dell’elettorato moderato. Rispetto a questo bacino (che si sente in larga misura penalizzato dalle scelte compiute dall’amministrazione uscente), i due sfidanti hanno fatto scelte radicalmente diverse. Da questo punto di vista, gli esiti delle primarie prima, delle elezioni presidenziali poi potranno quindi dire molto non solo riguardo a chi siederà nello Studio Ovale per i prossimi quattro anni ma soprattutto sulla direzione che prenderà la vista sociale e politica degli Stati Uniti nel prossimo futuro.
Gianluca Pastori, Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.