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Le tensioni dei Democrats oltre la sfida Clinton-Sanders

Inviato da ISPI il Mar, 01/03/2016 - 17:38
Martedì, 1 marzo, 2016
USA & Americhe

Tradizionalmente, il ‘super martedì’ (super tuesday) costituisce un momento importante per l’elezione del presidente degli Stati Uniti. Quest’anno, il 1° marzo, i candidati repubblicani e democratici si confronteranno in dieci stati (Alabama, Arkansas, Georgia, Massachusetts, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont e Virginia); in Alaska si terranno solo le primarie repubblicane e nel territorio delle Samoa Americane solo quelle democratiche. In Colorado, infine, mentre i candidati democratici si sfideranno direttamente, il Partito repubblicano eleggerà solo i propri delegati, che in un momento successivo formalizzeranno la scelta di chi sostenere alla convention nazionale. Questa pluralità di situazioni aggiunge interesse a un confronto che – dopo Iowa, New Hamsphire, Nevada e South Carolina – presenta ancora ampi margini d’incertezza. I successi di Donald Trump negli ultimi tre Stati (75 delegati nelle tre tornate, contro i 9 di Rubio e di Cruz, i 5 di Kasich e il solo delegato di Carson) complicano non poco la marcia degli altri concorrenti, condizionandone sia le scelte di posizionamento sia le strategie comunicative. Sul fronte democratico, invece, se la concorrenza di Bernie Sanders non sembra mettere realmente in discussione il successo finale di Hillary Clinton, essa getta comunque una luce disturbante sulle divisioni esistenti all’interno di un partito le cui molte anime sono emerse con forza negli anni della presidenza Obama.

Anche se per motivi diversi, sia Hillary Clinton sia Bernie Sanders possono vantare un legame forte – morale o materiale – con l’eredità del presidente uscente. Già rivale di Obama durante le primarie del 2008, la Clinton ha svolto una parte importante all’interno della sua prima amministrazione. Il ruolo dell’ex Segretario di Stato è stato inoltre centrale nello “sdoganare” Barack Obama e la sua proposta politica agli occhi di una larga fetta dell’elettorato moderato, elettorato che, al momento dell’insediamento, nutriva forti timori nei confronti del presidente e delle sue posizioni, ritenute troppo radicali. Questa immagine si è consolidata negli anni successivi, quando quella che è stata vista come l’accentuazione della dimensione liberal dell’amministrazione si è accompagnata alla progressiva erosione del favore da questa goduto. Non è un caso che proprio “al centro” la Clinton abbia raccolto, sinora, il grosso del proprio consenso. In questo senso, gli esiti del “super martedì” saranno utili per comprendere se e quanto la ex First Lady sia in grado di uscire dal recinto in cui sembra essersi auto-confinata, allargando la sua base elettorale alla tradizionali “minoranze forti” del paese. In questo campo, le cifre rimangono discordanti; tuttavia, dopo le incertezze del voto in Nevada, i risultati del South Carolina hanno dimostrato in modo piuttosto chiaro la capacità di Hillary Clinton di intercettare anche il voto femminile e dell’elettorato di colore, presso il quale la percentuale di consenso si è attesta intorno a valori compresi fra l’80 e l’85%.

È possibile, dunque, che il “super martedì” finisca per mettere ancora più in luce quella che – dopo l’exploit dell’Iowa – continua a rappresentare la maggiore debolezza di Bernie Sanders, ovvero la difficoltà di trasformare in delegati il consenso di cui gode a livello popolare. È possibile, in altre parole, che il “super martedì” finisca per consolidare una situazione in cui, a fronte di percentuali di consenso grossomodo simili, il numero dei delegati raccolti dai due candidati democratici risulti molto diverso. A fronte di un quorum per la nomination di partito di 2.383 delegati, Hillary Clinton ne ha infatti raccolti – a oggi – 544 contro gli 85 di Sanders. Ancora più significativa è la differenza fra i c.d. “super-delegati”. Fra questi maggiorenti (membri del Congresso, governatori degli stati e altre figure-chiave del partito), peraltro tipici del Partito democratico, ben 453 si sono, infatti, già schierati con la Clinton e solo 20 con Sanders; un divario di fronte alla cui ampiezza poco importa che i “super-delegati” possano mantenere (almeno formalmente) libertà di scelta rispetto al candidato da appoggiare fino alla convention di Philadelphia del prossimo luglio. Le ragioni di questo stato di cose sono diverse; vale comunque la pena di osservare come Sanders sia considerato favorito soprattutto in stati “minori”; fra quelli del “super martedì”, il Massachusetts, che “vale” 91 delegati e 25 super-delegati contro, ad esempio, i 222 delegati e i 30 super-delegati del Texas, stato in cui Hillary Clinton è data in vantaggio, così come in Tennessee e in Georgia (rispettivamente 67 delegati; 9 super-delegati e 102 delegati; 14 super-delegati).

Bernie Sanders rappresenta – sia in termini di retorica, sia di contenuti – il più coerente fra i continuatori del messaggio politico dell’amministrazione uscente, anche se la sua campagna ha sperimentato, nel corso degli ultimi mesi, un riorientamento verso il centro che, in qualche misura, costituisce la risposta uguale e contraria alla crescente attenzione dimostrata da Hillary Clinton verso i gruppi esterni al suo elettorato di riferimento. Egli rimane, tuttavia, penalizzato dalla scarsa presa che il suo messaggio “egualitarista” ha su una middle class che percepisce la sua posizione socio-economica come sempre più in pericolo. In un panorama politico sempre più radicalizzato, la posizione di Sanders è vista inoltre – anche all’interno dello stesso partito democratico – come foriera di ulteriore polarizzazione, una situazione che finirebbe per alimentare la “corsa agli estremi” lanciata dai candidati repubblicani. Ancora una volta, il declino delle fortune di Sanders sembra così legarsi alla sua difficoltà di richiamare i voti di un elettorato “moderato” su cui Hillary Clinton incide con molta maggiore efficacia. La presa di Sanders è apparsa sinora forte in una serie di importanti settori “di nicchia” (giovani, donne, minoranze...) rispetto ai quali, tuttavia, la sua rivale è riuscita a guadagnare posizioni. Il fatto che la maggior parte di quelli in cui si voterà durante il “super martedì” siano stati del sud (Alabama, Arkansas, Georgia, Texas, Virginia e Tennessee) costituisce un ulteriore fattore di debolezza, soprattutto alla luce del buon risultato ottenuto dalla Clinton in South Carolina, che di questi stati rappresenta una buona proxy.

Il 1° marzo si rivelerà, dunque, fatale per le ambizioni del senatore del Vermont, anche se il totale dei delegati in palio (1.034 compresi i 17 del collegio estero) non lo condanna ancora a una sconfitta “matematica”? La possibilità è concreta. Resta tuttavia la realtà del successo di un candidato che in più occasioni si è proposto all’elettorato forte delle proprie credenziali “socialiste”. Una realtà, questa, che se da una parte dimostra la capacità d’influenza che ha avuto la retorica obamiana del “change” almeno agli occhi di una parte del paese, dall’altra è la dimostrazione di come la ripresa economica degli ultimi anni si sia comunque accompagnata a un malcontento crescente, malcontento cui la candidatura di Sanders ha saputo dare voce. Come nel 2008, lo scenario che si presenta è, quindi, quello di un Partito democratico diviso al proprio interno intorno a due visioni profondamente diverse del “progetto americano”. Otto anni fa, la soluzione con cui il presidente entrante ha cercato di ricomporre la frattura è stata quella di includere lo sfidante all’interno dell’amministrazione; una scelta che, però, non è stata priva di tensioni. Oggi, una simile soluzione appare improbabile, non fosse altro perché la forza dei numeri sembra destinata a garantire a Hillary Clinton una legittimazione molto maggiore rispetto a quella goduta a suo tempo da Barack Obama. È tuttavia difficile credere che l’“esperienza Sanders” possa passare senza lasciare traccia sul futuro di una presidenza il cui successo dipenderà in larga misura dalla capacità di tenere insieme tante (forse troppe) tensioni contrastanti.

Gianluca Pastori, Professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

@Gianluca_1967


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Tags: 
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