
La polarizzazione del sistema politico statunitense è da tempo pienamente penetrata all’interno del Grand Old Party (GOP). L’ascesa del movimento del Tea Party come reazione dei conservatori alla crisi economica aveva già fatto rilevare una prima scossa sismica tra le fila dell’establishment repubblicano fin dal momento dell’insediamento alla Casa Bianca di Barack Obama nel 2009. Un primo spostamento del baricentro verso posizioni più radicali, questo, che a Capitol Hill la leadership del GOP, in termini di disciplina di partito, aveva cercato di incanalare istituzionalmente tramite compromessi ottenendo, pur tra alti e bassi, un apparente successo, a partire dalle elezioni di medio termine del 2010. Ma ciò che, ancora due anni fa, si presentava come una situazione gestibile, oggi si sta dimostrando sempre più fuori controllo. L’ascesa di Donald Trump – che non a caso ha ricevuto il significativo endorsement di Sarah Palin, già candidata vicepresidente nel 2008 ed espressione del Tea Party – è un terremoto che fa da perfetto contraltare al ritiro dalla corsa alla presidenza di Jeb Bush, accreditato alla vigilia delle primarie come il grande favorito nella sfida a Hillary Clinton.
Trump e Bush, due personalità agli antipodi, sono stati acerrimi rivali negli scorsi mesi, con l’ex governatore della Florida che, nel corso dei dibattiti televisivi e sui social network, aveva tentato a più riprese di delegittimare il tycoon facendone risaltare la totale inesperienza politica. Una carta che non ha pagato, anzi l’opposto. La destra che si sta recando alle urne nel corso di queste primarie, già di per sé storicamente più conservatrice rispetto a coloro che votano repubblicano alle presidenziali, ha premiato Trump proprio per la sua estraneità all’establishment, vedendo in lui il perfetto outsider in grado di parlare (in modo tutt’altro che politically correct) al cuore e alla pancia più che alla testa dell’elettorato, e di ridare vigore a un partito avvizzito e poco reattivo nell’adattarsi a un paese in mutamento. Al contrario l’approccio più razionale di Bush, non sostenuto però da doti carismatiche significative, si è dimostrato del tutto inefficace, ed è andato a sommarsi a una indiscutibile affiliazione all’establishment accentuata da un cognome infine rivelatosi assai scomodo. Insomma, la base repubblicana – è la lezione che si può trarre fin qui – non è solo alla ricerca di una leadership nuova, non necessariamente esperta dellares publica, bensì esige una rivoluzione totale della struttura del GOP.
Alla vigilia del Super Tuesday, la corsa per la nomination repubblicana appare ridotta a tre nomi. Trump, il senatore del Texas, Ted Cruz, e quello della Florida, Marco Rubio. Il primo e il secondo sono, in realtà, due facce di una medesima medaglia. Come recentemente sottolineato dal Wall Street Journal, alla vigilia delle primarie il piano di Cruz, conosciuto anche per essere una mina vagante tra gli scranni repubblicani di Capitol Hill, era piuttosto semplice: sfruttare lo spostamento a destra del baricentro del GOP, cavalcare la rabbia dell’elettorato nei confronti della leadership di partito e presentarsi come il miglior outsider possibile capace di rappresentare al meglio lo spirito dell’America profonda; i suoi interlocutori sarebbero stati i simpatizzanti del Tea Party, gli elettori anti-immigrati, i libertari e gli evangelici. Quanto basta per essere il nominee? Di certo la strategia ha funzionato per ilcaucus in Iowa. Ma lì si è fermata, proprio nel momento in cui l’one-man-show Trump ha infuso nuovo sforzo nella sua campagna chiamando a sé, anzitutto con le sue indiscutibili qualità mediatiche, le stesse categorie elettorali obiettivo di Cruz. La base del GOP ha così dato fiducia al tycoon negli stati in cui si è votato successivamente, incluso – fatto piuttosto rilevante – il Nevada, dove a essersi espressi sono stati i membri locali del partito.
Per tale sovrapposizione nella geografia elettorale, sarebbe quantomeno singolare che fossero Trump e Cruz a giocarsi la nomination repubblicana. È possibile (ma non scontato), invece, che il duello finale si disputi tra il tycoon e Rubio, candidato preferibile dall’establishment e non casualmente ex delfino di Jeb Bush. Ben più vicino di Cruz alla leadership di partito, in primis per il suo trascorso da Speaker della Camera dei Rappresentanti, il senatore della Florida avrebbe infatti un profilo politico maggiormente spendibile a novembre nella sfida con i democratici. Moderato quanto basta per l’attuale destra, ma con passati legami col Tea Party e una retorica dai forti accenti reaganiani, tra i candidati repubblicani Rubio meglio incarnerebbe il volto di un’America che cambia. Nato da padre cubano e madre americana, potrebbe attirare almeno una porzione di quell’elettorato ispanico che, sia nel 2008 sia nel 2012, ha optato in larga parte per Obama sottraendo al GOP molti voti necessari per tornare alla Casa Bianca. Il tutto – è lecito supporre – senza alienarsi i conservatori più puri né i moderati.
Le urne per le presidenziali, però, sono ancora lontane, e oggi Rubio, che consapevole del suo nuovo ruolo ha iniziato ad attaccare a spron battuto Trump nei dibattiti televisivi e sul web (lo ha definito “artista dell’imbroglio”), non ha ancora in mano quel sostegno politico necessario per raggiungere l’agognata nomination alla convention del prossimo luglio. Non solo infatti avrebbe bisogno dei voti che, fino alla vigilia del Nevada, erano stati di Bush, ma dovrebbero convergere su di lui anche quelli del mite Kasich – tutt’oggi in corsa e prima scelta dell’Economist, ma relegato nelle posizioni di retrovia – e soprattutto quelli di Cruz, nel caso dovesse ritirarsi. Un’eventualità, questa, ancora lontana, ma che potrebbe concretizzarsi in caso di fallimento nella partita giocata da favorito tra le mura di casa del Texas. Ma che comunque a beneficiare di un eventuale ritiro di Cruz fosse Rubio e non Trump sarebbe davvero tutto da dimostrare.
Davide Borsani, Ph.D., ISPI Associate Research Fellow e Università Cattolica, Milano.