
Si sono tenute ieri, 7 giugno 2016, le votazioni per le primarie americane in sei Stati: California, Nord e Sud Dakota, Montana, New Mexico e New Jersey. I risultati nel Partito democratico hanno premiato Hillary Clinton, che ha riportato vittorie in California (57,1%), New Jersey (63,3%), New Mexico (51,5%) e Sud Dakota (51%), mentre lo sfidante Bernie Sanders ha conquistato Nord Dakota (64,2%) e Montana (50,9%). Sul fronte repubblicano, Trump ha vinto in tutti gli stati chiamati alle urne. La sfida per la Casa Bianca si terrà, dunque, tra Donald Trump e Hillary Clinton.
L’ex Segretario di Stato ha raggiunto il quorum necessario per la nomination automatica per il Partito democratico (2.383 delegati) già il 6 giugno, dopo i risultati favorevoli ottenuti nelle votazioni a Porto Rico e nelle Isole Vergini e dopo il decisivo sostegno espresso nei suoi confronti dagli altri super delegati. Le ultime vittorie non possono fare altro che rafforzare la sua posizione all’interno del Partito dell’Asino e la Convention democratica di Philadelphia a luglio dovrà solo incoronarla come candidato ufficiale alle elezioni presidenziali di novembre. Barack Obama, vincitore proprio contro la Clinton nelle primarie democratiche del 2008, ha ufficialmente espresso il suo sostegno alla corsa presidenziale dell’ex First Lady. Il rafforzamento della leadership della Clinton deve però essere accompagnato ad un processo di consolidamento della propria immagine tra le fila dei democratici, proponendosi come il candidato unico in grado di accogliere anche le differenti istanze della minoranza sandersiana. Questo sarà il suo principale obiettivo entro luglio.
Da parte sua, il senatore del Vermont, nonostante la sconfitta nel Super Tuesday e il consiglio da parte di Obama di ritirarsi dalla corsa elettorale in nome dell’unità del partito, ha dichiarato di voler proseguire la battaglia fino alla prossima Convention di Philadelphia del 25-28 luglio. Sanders ha, inoltre, accusato l’establishment democratico di aver diffuso con eccessivo anticipo la notizia del raggiungimento del “magic number” di delegati da parte di Hillary Clinton, alterando psicologicamente l’esito delle ultime votazioni.
Dopo aver celebrato lo storico risultato di essere la prima donna nella storia degli Stati Uniti a presentarsi alle elezioni presidenziali, Hillary Clinton dovrà ora pianificare le future mosse per ricongiungere gli strappi con la minoranza del proprio partito, ma allo stesso tempo proponendosi come un candidato accettabile anche per l’elettorato repubblicano moderato che non voterebbe per Donald Trump. Sarà necessario, quindi, trovare un equilibrio tra le varie correnti all’interno del partito democratico, soprattutto nella definizione di un futuro programma elettorale da proporre per le elezioni di novembre, che non potrà non tenere conto delle richieste dei sostenitori di Sanders. Hillary dovrà dimostrare da un lato apertura e capacità di adattamento per accogliere le richieste dell’elettorato giovane - rimasto fortemente legato a Sanders -, dall’altro chiarezza e trasparenza, come nelle questioni relative allo scandalo delle proprie mail e ai legami con l’alta finanza di Wall Street. Queste saranno le prossime sfide lungo il cammino elettorale di Hillary, che nel frattempo sta attaccando Trump principalmente sulla sua pericolosità per la democrazia americana, a causa delle sue esternazioni sulle minoranze etniche statunitensi che costituiscono la base elettorale principale della Clinton. Anche il recente discorso dell’ex First Lady sulle proprie proposte di politica estera si è trasformato per lunghi tratti in una filippica contro le idee e le posizioni del tycoon newyorkese, piuttosto che l’esposizione di un programma politico. La strategia di unione dei moderati all’insegna del motto “tutto purchè non vinca Trump” sarà certamente una carta importante e forse decisiva per la Clinton.
L’esigenza di unione affligge anche Trump, che nonostante le schiaccianti vittorie elettorali, è stato per l’ennesima volta al centro di accese polemiche per le sue dure dichiarazioni contro Gonzalo Curiel, il giudice texano di origine messicana che dovrà occuparsi del caso relativo alle presunte truffe alla sua Trump University. Dopo le esternazioni contro Curiel, lo speaker della Camera dei Rappresentanti Paul Ryan, pur continuando a sostenere la corsa presidenziale di Trump, ha definito le parole del candidato repubblicano come “razziste”. Un messaggio indiretto alla moderazione dei toni che il magnate di New York ha subito recepito, tanto che nel suo ultimo discorso pubblico ha dichiarato di voler rendere fieri i propri elettori per il sostegno dato durante tutta la campagna elettorale. Certamente l’immagine di Trump deve migliorare ancora molto se vuole avere qualche chance di estendere la propria base di consensi verso l’elettorato moderato, elemento chiave per ottenere la vittoria in qualsiasi elezione.